4:48 Psychosis, il disperato urlo d’amore secondo Valentina Calvani

4:48 Psychosis

4:48 Psychosis, ultimo testo poetico della drammaturga inglese Sarah Kane, è in scena al Teatro Elicantropo di Napoli dal 14 al 17 aprile 2016 per la regia di Valentina Calvani con la mirabile interpretazione di Elena Arvigo. La messa in scena di quest’opera è postuma la morte della drammaturga, suicidatasi nel 1999 mentre era ospedale a causa di un’overdose di sonniferi. Il testo si presenta privo di note a margine e didascalie, scevro di indicazioni rispetto all’io narrante o alla scena. Un testo desueto per la rappresentazione ma che conferisce proprio per queste sue caratteristiche ampia libertà rispetto alla scelta registica, attoriale e scenica.

La drammaturgia di Sarah Kane è spiazzante perché estremamente reale, diretta, schietta. Senza giri di parole, senza forzatura alcuna, ma la semplice verità. Cruda, assoluta, disarmante, che trapassa da parte a parte come una scheggia e spiazza perché fortemente concreta, assolutamente vera. 4:48 Psychosis è questo e molto altro. È il teatro dell’io, l’ultimo teatro della Kane, la sua ultima confessione, il suo testamento. Un urlo di rabbia ma anche di amore, una lucida proiezione di quello che è e di quello che sarà. Il delirio di una mente sconvolta dal disagio psichico, un’evoluzione continua di sentimenti, di situazioni, di accettazione, di rifiuto, di avvicinamenti e allontanamenti mossi da una mano invisibile che in modalità e forme differenti muove tutto intorno: una profonda richiesta d’amore che viene dal più remoto angolo dell’anima, una richiesta d’amore possibile soltanto quando l’animo si è ormai perso nella dissoluzione del sottile confine tra il reale e l’irreale.

Un odore forte di terra invade la sala. Ne è piena la scena, una terra molle su cui Elena Arvigo cammina lenta a piedi nudi, infrangendo ad ogni passo frammenti di specchi il cui rumore riecheggia tutto intorno. Cammina, veloce e lenta, si siede su quella terra, che si muove come diecimila scarafaggi quando entra un raggio di luce, frantumi di un’esistenza che ormai non c’è più, la tocca quasi la plasma passandosi sul corpo il segno di questo passaggio. Una scenografia prospettica si irradia davanti agli occhi: delle carte da gioco troppo grandi fanno da avamposto ad una sedia altrettanto grande sul fondo. Uno specchio in alto riflette lo sguardo dello spettatore, un filtro tra l’essere ed il non essere. Dal soffitto pende un vecchio orologio da taschino, anch’esso enorme, e sotto di esso ampolle trasparenti che come un moto ludico si riempiono e si svuotano di palline bianche seguite dalla voce della protagonista: 7, 37, 21, 44, 7, 42, 12, 7. In un angolo la coda dell’occhio scorge una piccola, piccola sedia rossa. Pezzi di lampadari sparsi tutti intorno. Elena vestita nel suo sottile abito rosso che lascia le spalle scoperte, al collo due lunghi lacci che le pendono sul davanti, simbolo e allo stesso tempo unico retaggio di un contatto col reale perché fortemente intrisi del profetico che portano con sé. Indossa un  abito ma sembra essere nuda, vestita della sua sola voce e di quegli occhi dolci e funesti che scrutano ed interrogano il pubblico.

La mente sbriciolata in mille frammenti confusi prende corpo in questo flusso di coscienza, che alterna lucidità al buio più totale. Un  flusso che a prima vista sembra non avere alcun filo conduttore, frammenti che volteggiano nell’aria perché partoriti da una mente malata. L’incedere del monologo però induce in breve tempo lo spettatore alla consapevolezza che è dinnanzi una liturgia della parola, quasi una preghiera, un’invocazione di salvezza. Le 4:48 è l’ora della disperazione, mi suiciderò al suono del respiro del mio amante, non come rigetto della vita ma come presa di coscienza rispetto all’impossibilità di viverla questa vita in un mondo che non riesce più a sentire, dove tutto è parcellizzato da farmaci, cure, visite, nel gioco di vite della professione medica dove la salvezza non esiste più.

Elena Arvigo raccoglie in sé le voci del racconto. È Sarah, è la voce degli uomini e delle donne che sono in cerca della luce, è il medico che la tiene in cura, è l’amore non corrisposto. Un’alternanza vorticosa ma estremamente lucida in grado di restituire loro dignità umana: l’io narrante sveste tutte le sovrastrutture insite nello stigma sociale e diventa vivo. 4:48 Psychosis non è la drammatizzazione di un testo drammatico ma la sua umanizzazione, volto a trasformarlo in un atto d’amore e di poesia che si regge sulla presenza scenica della protagonista che riempie la sala con la forza del suo corpo che sfinisce in mille e mille movimenti ripetuti compensati da occhi teneri e forti, fluidi e scattosi. Una vasta scala di sfaccettature emotive che scavano nella sofferenza e nella solitudine senza mai essere banali o retoriche che perseguono un unico obiettivo: essere ascoltate, salvate, guidate verso la luce. La luce che avvolge la scena, accendendo e spegnendo l’anima. La luce troppo spesso fredda che passa attraverso gli specchi, attraverso i lampadari rotti o che emerge da dentro un’ampolla. La luce che c’è ma che spesso è celata dietro il sordo muro della solitudine.

 

 

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