Vuccirìa Teatro: dal letame nasce sempre qualche fiore, ma come? Con quanta fatica?

Vuccirìa Teatro

Vuccirìa Teatro è una compagnia teatrale indipendente formatasi nel 2013 che opera tra la Sicilia e Roma. Fondata da Joele Anastasi ed Enrico Sortino, collabora fin dall’inizio con la compagnia l’attrice Federica Carruba Toscano. Al centro del lavoro della compagnia vi è l’attore, e le sue possibilità creative: la sua capacità di creare e dare vita dall’interno ai mondi che lo appartengono. Tra i lavori ricordiamo Battuage, Io, mai niente con nessuno avevo fatto, Yesus Christo Vogue, Nel nome di questo nostro sacro corpo.
Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te/voi, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?    

In fondo non facciamo altro che parlare di crisi e di come il sistema faccia acqua da tutte le parti. Ed è indubbiamente un dato oggettivo. Basti pensare al Teatro Stabile della nostra città – Catania – che in questo momento è collassato. E sempre per guardare alla nostra Sicilia alle questioni traballanti di Palermo e Messina. Forse occorrerebbe definire due diverse tipologie di crisi.
Di una “certa” crisi l’artista “campa”. Lo stato di conflitto, di “scomodità” è sempre stato l’habitat ideale per tante creazioni artistiche. Personalmente lo è anche per noi.
Ma poi dall’altra parte c’è la crisi degli organismi culturali. E questa è proprio un’altra faccenda. Una crisi che non fa bene perché non si concentra sull’oggetto delle creazioni artistiche ma, più che altro, sull’esistenza stessa del soggetto. Si certo poi dal letame nasce sempre qualche fiore, ma come? Con quanta fatica? Penso che ogni artista italiano sogni ed auspichi una politica culturale differente. O forse, per essere volutamente provocatori, sogni proprio l’esistenza di una politica culturale. Di una direzione pensata e poi quindi agita dagli artisti. Ancora in Italia questo è utopico. Basta affacciare il naso fuori per vedere come in alcuni paesi della nostra Europa la cultura ha un valore. Ci sono tante lodevoli iniziative da nord a sud, teatranti e operatori-teatranti che si sbattono e si re-inventano per sopravvivere, ma si sente e come la mancanza di un collante. Allora non si avrebbe l’impressione di assistere al nascere di festival, rassegne, stagioni (alcuni anche belli, bellissimi) che nascono per darsi l’opportunità di scambiarsi gli spettacoli o più in generale per darsi un motivo per esistere. Insomma siamo punto e a capo. Però più radical-chic.
Poi, se vogliamo parlare di crisi generazionale, identitaria e collettiva quello si che diventa nuovamente oggetto dell’artista che s’interroga e si scopre. E’ solo questa la crisi che vorremmo.

Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?
Se il teatro rispecchia la società del suo tempo, allora si possiamo dirlo. Ma l’impoverimento e l’appiattimento è profondo e ben radicato. Il teatro fa comunque il suo dovere e come un amante bisogna accettarlo per quello che è.

Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa?
Bisognerebbe ritrovarla e riscoprirla. Sembrerebbe che la funzione sociale del teatro oggi sia di “raccontarcela” tra noi che lo facciamo il teatro. Gli intellettuali, i teatranti vogliono interrogarsi, piangere, scoprire, ridere, guardare e demolire altri teatranti. Tutto il resto è la gente “comune” che dal teatro, spesso, esige solo intrattenimento. E purtroppo bisogna fare anche un distinguo sul territorio di provenienza.
Se penso alla nostra Sicilia penso che ci sia ancora tanto lavoro da fare. Troppe poche persone vanno a teatro. Molti non ci sono mai stati o poche volte nella vita. E non stiamo parlando affatto dei ceti più ‘bassi’. Però le stagioni di teatro dialettale, amatoriale pullulano! Non occorre quindi farsi qualche domanda? In cosa sbagliamo se poi basta davvero poco? A che serve interrogarsi, piangere, scoprire, ridere, presentare un primo studio di, avere il “critico x”, l’”operatore y”? Forse la cosa semplice è che i teatri che offrono questo tipo di programmazione fanno un buon lavoro sul territorio e quindi, giustamente, sono ricompensati. Il teatro istituito però forse ha scordato che è appunto questa la sua funzione primaria. E spesso è un discorso da “intellettuali” (o presunti tali) per “intellettuali”.
Si parla ancora dell’antico teatro greco. Loro avevano una forte e salda identità collettiva. Da allora in poi, storicamente, siamo andati verso la distruzione di un’identità collettiva a favore di una sempre più crescente identità individuale. Di cosa ci stupiamo?

Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?
Avremmo bisogno di un tornado. Dalla rivoluzione qualcosa può nascere. Non si diventa virtuosi dall’oggi al domani. Non possiamo svegliarci domani e cercare di riprodurre il modello culturale francese o belga, per dirne due a caso. Così come a teatro, occorre sudarsele le cose. E costruirle, con pazienza.

Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?
Se pensiamo che gli artisti/registi “giovani” in Italia sono considerati i quarantacinquenni direi proprio di no. Ed ovviamente la nostra non è affatto un’accusa a questa generazione. Anzi.
Che poi la gavetta, le prove negli scantinati, senza un euro e con gli attori-tecnici-facchini-imbianchini-uffici stampa e cartolerie li possiamo pure fare perché è giusto così e amen. Ma, ma, ma! Se solo avessimo un interlocutore reale! Un sistema perlomeno con il quale interloquire e a cui dimostrare che la gavetta l’abbiamo fatta/ la stiamo facendo/ non la sappiamo fare. Poi non c’è da meravigliarsi se facciamo spettacoli brutti e la gente si rompe i coglioni o se appunto a quarantacinque anni al primo ente pubblico che sceglie di “produrci stabilmente” ci avvinghiamo come polipi e non ci scolliamo più a costo anche di mettere in scena l’albero azzurro spacciato per Macbeth. E allora, a quel punto, tutti a dire che quando si era “indipendenti-senza un euro-negli scantinati” la vera “urgenza” artistica veniva fuori potente-struggente-bellissima. Ma siamo seri?

Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te/voi.
Da un punto di vista pratico eliminare tutto lo spreco che avviene nel settore pubblico e riorganizzarlo per un numero di soggetti maggiore. Artistico, puntare molto di più sulla scrittura, già dalla formazione.

Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”? Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?
Tutto ha senso se abbiamo qualcosa da dire. Di certo non ha senso mettere in scena i classici solo perché “qualcosa va fatta”. Ma attenzione vale esattamente lo stesso per i testi “contemporanei”. Ormai l’etichetta “sperimentazione”/“contemporaneo” sembra che esista per giustificare che possiamo fare quello che vogliamo. E i teatri (in/off/off off) pullulano di autori improvvisati e testi brutti! Bisogna riacquistare un po’ di autocoscienza. Dobbiamo tutti avere il coraggio di stare zitti quando non abbiamo qualcosa da dire.
Per la questione direttori artistici si apre un mondo. Se parliamo di politica, tutto è politica. Se parliamo di favoritismi, scambi e porcherie allora quello è un altro discorso. Ma non c’è molto da parlare.

Si può parlare di “dittatura teatrale” nel mondo delle arti in scena? Se sì, perché?
Si può parlare di varie dittature. La dittatura dei vertici istituzionalizzati che alimenta e scambia privilegi con se stessa. La dittatura dei vertici che vogliono istituzionalizzarsi e scambia privilegi con i propri simili.
È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune?
Sono già un punto comune perché sono la stessa cosa. Il sistema è autoreferenziale. Bisognerebbe quindi perderlo questo punto comune.

Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole?
Ma non dovrebbe essere una cosa ovvia e naturale? Ma come mai ci sono quasi più “progetti di formazione del pubblico” che spettacoli? Gli spettatori non dovrebbero esserci e basta? Non è il punto di partenza del teatro? Urliamo e ci dimeniamo verso chi? Allora forse sarebbe più coerente dire progetti di creazione del pubblico.
Lo spettatore è il teatro! Per noi per lo meno è abbastanza chiara come cosa. Come gruppo ci siamo affermati grazie al pubblico. Non abbiamo santi in paradiso, non veniamo da nessun percorso “ufficiale”. Non abbiamo un teatro come merce di scambio per i nostri spettacoli. Non abbiamo neanche un Teatro Stabile con il quale interloquire o a cui presentare uno straccio di progetto o proposta. E quando c’era, era come se non ci fosse. Non ci sono molte compagnie giovani siciliane che operano a livello nazionale e che abbiano avuto dei riconoscimenti nazionali ed internazionali. Abbiamo poi avuto la fortuna-sfortuna di emergere a Roma che ha tanto da fare per la cultura ancora… E così siamo stranieri a casa nostra e siamo stranieri dove viviamo, Roma; la città verso cui con molte speranze ci siamo rifugiati per trovare un futuro. Il pubblico da nord a sud è diventato il tetto sotto il quale ripararci. Siamo nati dalla gente ed è per questo che ancora siamo qui. Non abbiamo altro che noi stessi e il nostro lavoro da offrire e ringraziamo gli operatori che ci hanno sostenuto fino ad adesso solo perché interessati al nostro lavoro. Abbiamo toccato con mano l’alchimia che può accadere con la semplicità di una storia da raccontare. E per questo ci sentiamo privilegiati. Il pubblico vuole solo emozionarsi. L’essere umano vuole solo quello. Una ragione per ricordarci che siamo ancora vivi.

Prima di salutarvi, ringraziandovi per la collaborazione, vi chiediamo un’ultima riflessione: qual è la tua/vostra missione teatrale? Come immaginate la situazione culturale e teatrale italiana nei prossimi cinque anni?
Sogniamo un paese in cui l’artista si possa preoccupare “dell’effimero”. Possa parlare di politica, filosofia, religione e interrogarsi e interrogare. Invece siamo qui a parlare ancora di noi stessi, con noi stessi. D’altronde perfettamente in accordo con la nostra società autoreferenziale ed egoica. Che noia!
Allora sognando potremmo finalmente dire basta a tutte le compagnie (compresa la nostra) “indipendenti non per protesta al sistema come-quando-era bello-nel ‘68 ma perché nessuno ci vuole e in fondo vogliamo noi stessi essere il sistema e smettere di essere indipendenti”. Allora sognando dovremmo tutti sostituire all’aggettivo indipendente, l’aggettivo disperati. L’italiano in fondo si lamenta sempre di ciò che sta al potere. Ma non brama altro. E’ nel nostro DNA.
Oggi la nostra missione primaria è esistere. Sopravvivere. Con le forze che ci restano vorremmo contribuire a diffondere un po’ di poesia nel mondo. Nel modo tutto nostro. Un po’ urlando e un po’ lamentandoci. D’altronde ce lo siamo scelti come nome. Vuccirìa significa proprio questo.

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