Una casa di bambola: tutto quello che Timi e Ruth Shammah non mostrano

Casa di bambola 3

Per Torvald Helmer la libertà, nel XIX secolo, è codificata nel linguaggio del denaro e delle finanze, che rappresentano la base dello stile di vita borghese. Sin da subito Ibsen lo mostra al suo pubblico introducendolo in una “stanza accogliente e di buon gusto, ma senza lusso”. Apprendiamo, sin da subito, la debolezza di Nora per gli amaretti, vietati dal marito. Sono arrivate le feste di Natale, cresce la voglia di Nora di comprare regali ma Torvald non vuole che si sperperi ancora denaro e invita la moglie ad essere più responsabile. Stiamo assistendo ad un battibecco all’interno di una casa dell’alta borghesia dove le donne, come Nora, sono protette e non dominate. Man mano che si procede nella narrazione, si apprende che Torvald, appena sposato con Nora, era così intento a costruirsi una condizione sociale impareggiabile che il lavoro gli diede problemi gravi di salute. Per questo motivo Nora falsificò la firma di suo padre morente per ottenere un prestito proprio per concedere a Torvald una lunga vacanza facendogli credere di aver ottenuto un’eredità dal padre.

Torvald non sa, quindi, che le sue condizioni di salute sono migliorate grazie ad un debito contratto dalla moglie proprio perché Nora ha evitato di rompere il velo di illusione creato dal marito tutto basato su autosufficienza, sacrificio e bellezza. Alla fine, dopo aver scoperto la fraudolenza di Nora, dice: <<Nessuno sacrifica il suo onore a quelli che ama>> e invita la moglie a mantenere le apparenze, all’esterno, anche se il rapporto è ormai sfaldato. L’onore, quindi, viene prima dell’amore, per Torvald, e l’apparenza prima della sostanza perché è il fantoccio di una piccola città e di una società profondamente moralistica. Nora, invece, per contro, è solo la “bambola” del padre e, poi, del marito, quindi può rinunciare alla sua vita matrimoniale in nome di un’idea di libertà.

Cambia qualcosa in Torvald, nel corso della commedia: nei primi due atti dovrebbe apparire sicuro di sé, solido mentre, dopo la notizia della frode di Nora, Ibsen ce lo mostra fragile e incapace di assumersi una responsabilità anche perché non è in grado di rendersi conto del rapporto che ha avuto con la moglie basato unicamente su illusioni estetiche. Per questo, alla fine, invita Nora a tornare sui suoi passi proprio perché non può rovinare la sua reputazione e una situazione matrimoniale sfasciata lo metterebbe a disagio. Sono due figure centrali, portatrici di un carico di significati che anche una “lettura reazionaria”, come è stata definita da più parti, come quella di Andrée Ruth Shammah deve far venire fuori.

Casa di bambola è un lavoro sulla lotta per il riconoscimento di diritti ed è un manifesto ante litteram sulla società schiavista contemporanea. Ibsen ha scritto pagine importanti, che ancora oggi tuonano fortissime nei teatri di tutto il mondo, proprio perché descrive precisamente una parte intrinseca della modernità. Il dramma di Ibsen è ancora il nostro dramma e non può essere ridotto a macchietta per prestare il fianco a mattatori.

Nel rivalutare la sua vita, Nora mostra un coraggio eccezionale, aspetto che, nell’interpretazione di Marina Rocco, non esce minimamente fuori, non per colpa sua, se non attraverso un urlato stridulo. Lei è Antigone, è Medea e non una donna qualsiasi che sta abbandonando la sua famiglia. È un’eroina perché ha un coraggio che molte donne non avevano e non hanno mentre, invece, Torvald è l’uomo senza libertà d’azione. Filippo Timi, più intento a gigioneggiare che a focalizzarsi su di lui, non è in grado di riconoscere le tantissime sfumature del marito di Nora e non caratterizza minimamente né Krogstad né il dottor Rank. Al pubblico piace, e applaude in maniera convinta ma cosa avrà capito realmente di “Casa di bambola”?

Non si capisce, quindi, il perché di una rilettura che, sulla carta, basandosi sui saggi di Groddeck, avrebbe potuto far venir fuori nuovi significati, più attuali, facendo proprio leva sul carattere della commedia ma che, in realtà, non va oltre le regole della farsa. Il risultato finale è un ibrido rassicurante, ben confezionato (bellissime le luci di Gigi Saccomandi che seguono gli umori dei personaggi e convincente l’allestimento dello spazio scenico di Gian Maurizio Fercioni), ammiccante, che ripudia Ibsen senza tradirlo.

Visto al Teatro Bellini di Napoli il 21/02/2017

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