Tim e Jeff Buckley: nascere e morire nella decade sbagliata

Pazzesco. Muori nella maniera più stupida e triste, per un’overdose di eroina alla fine di una tournée, e vieni arruolato nel sempre più corposo esercito delle vittime del rock, assieme a Jimi, Janis, Jim e ad una nutrita schiera di ‘eroi’ bruciati dalla degenerazione della stessa cultura che li ha fatti fiorire. Dopodiché, arrivano altre rivoluzioni, nessuno si cura più di tanto del tuo catalogo e tu sei lì a sgomitare in mezzo ad una folla di quasi dimenticati, nonostante tu abbia una solida carriera discografica alle spalle.
Muori invece in maniera altrettanto triste ma maledettamente beffarda, annegato in un fiume, senza che alcun istinto autodistruttivo né alcuna depressione da rigetto post-flower power o mancato successo commerciale ti ci abbiano guidato, e ti succede a metà degli anni ’90, una decade in cui la cultura dell’icona rock è quattro volte più degradata e dozzinale che agli inizi (una per ogni decennio passato dall’avvento di Elvis), e tanto più frenetica è la ricerca di nuovi ‘miti’ da dare in pasto al pubblico. Succede quindi che nonostante tu abbia avuto nella tua breve vita soltanto il tempo di incidere un disco solista a tuo nome, e di girare il mondo con qualche tournée, ti ritrovi ad avere una carriera postuma luminosa quanto e più di quella che avevi dal vivo.

A circa vent’anni di distanza, le morti di Tim e Jeff Buckley, entrambi lutti di portata enorme per il mondo della musica pop/rock, mostrano chiaramente quanto sia cambiato il modo di vedere e vendere il mondo della musica e le icone delle star, sia da parte di chi queste icone le gestisce che di chi le adora o contribuisce a crearne il ‘mito’ (e mai termine è stato più abusato dalla fine degli anni ’80 in poi, all’inferno il primo Jovanotti e Radio Deejay Television e tutto quello che era ‘mitico’ quando avevo 13 anni). Tim ha contribuito in maniera fondamentale ad espandere gli orizzonti della musica dei tardi anni ’60, nutrendo il folk degli inizi di divagazioni sempre più sperimentali, fino a raggiungere i picchi jazzy-psichedelico-spaziali di Lorca e Starsailor, dischi davverorivoluzionari e ancora oggi inarrivabili. Jeff, che dal padre fu praticamente abbandonato in tenera età (assieme alla madre che oggi ne gestisce l’eredità artistica), ha dovuto faticare non poco per scrollarsi di dosso l’ombra scomoda del genitore, ed è titolare, da vivo, di un solo album, Grace, un esordio meraviglioso e sicuramente uno dei dischi migliori della sua decade.
Dopo la morte di Tim non mi pare ci furono, a parte i dovuti necrologi, iniziative discografiche particolari, anzi: il suo catalogo rimane ancora oggi uno dei più trascurati: si ristampano con bonus tracks and extensive liner notes anche i peti sotto la doccia di Cream o Hendrix (di quest’ultimo anche quelli rimasterizzati e rimixati per la 15ima volta, un giro ad ogni cambio di proprietà dei diritti di pubblicazione), mentre le edizioni Warner di Buckley sono le stesse – acusticamente decenti ma scadenti quanto ad apparato – della prima generazione di ristampe su cd (fine anni ’80 o giù di lì). Non parliamo poi di Blue Afternoon o Starsailor, magnanimamente concessi al pubblico dalla Rhino nel ’90 e praticamente spariti dal mercato dopo la bellezza una tiratura. Qualche live postumo (solo uno, Dream Letter, straordinario), qualche superflua compilation di versioni inedite, ma tutte operazioni a bassa tiratura e altrettanto basso profilo commerciale, roba da Mojo.
Jeff ha avuto invece la sfortuna di morire in un decennio alla disperata ricerca di eroi (il povero Layne Staley, che ha tirato le cuoia fuori tempo massimo, ne sa qualcosa, pace all’anima sua), e con un po’ di materiale mezzo lavorato ma non ancora pronto per la pubblicazione. Un ottimo album d’esordio combinato alla morte prematura e ai nastri del secondo album nel cassetto sono quindi bastati a proiettarlo in una specie di olimpo alternativo a cui il padre ancora aspira, ed è davvero grottesco vedere come Buckley II possa potenzialmente fare la fine di Hendrix (cosa impossibile, spero, a meno che la madre non vada a ripescare pure i nastri registrati da Jeff ancora in fasce), con pubblicazioni di demos e inediti grezzi assieme al ‘secondo album’ piattamente preprodotto, il live e adesso quest’ultimo album insieme a Gary Lucas. La cosa che infastidisce è che queste operazioni, comprese quelle dedicate a mostri sacri come Stones o Zappa, hanno ben poco da dire, e intasano il mercato solo ed esclusivamente perché chi ascoltava gli Who a vent’anni ha oggi, nella maggior parte dei casi, abbastanza soldi per comprarsi la terza edizione del cofanetto sestuplo con sei registrazioni diverse dello stesso concerto e una gigantografia (meglio una miniatura, forse) del naso di Pete Townsend mentre sfascia una chitarra (il naso, non Townsend), solo perché lui (l’ex-ventenne) ‘c’era’. Se applichiamo la stessa politica ad un promettente e geniale, cantautore dalla voce angelica che non ha cambiato la storia della musica, vedete anche voi come il tutto possa essere più che irritante: mito-express. Demo che ti lasciano solo con l’amaro in bocca: l’avrebbe registrata? E come l’avrebbe arrangiata? E se fossero i demo degli Unbeliavable Cazzons®, ci farei lo stesso caso?

Di tutto questo non credo sia responsabile l’ex signora Buckley, la cui buona fede non metto assolutamente in dubbio: è il contesto che è cambiato. Il processo di auto-mitologia attuato nel corso di decenni dalla generazione nata e cresciuta negli anni ’60 (quella del cofanetto degli Who), col passare del tempo ha avuto dinamiche sempre più frenetiche, arrivando quasi al collasso negli ultimi anni. Bastano tre settimane e un buon agente per fabbricare il ‘mito’ e l’icona di gente come gli Strokes (o i Datsuns: occhio ragazzi), e convincere il pubblico della sua bontà. Basta poco, ormai, per replicare quello che i figli dei sixties hanno raggiunto in decenni: l’auto-glorificazione da parte di generazioni di artisti ed ascoltatori che reclamano un posto vicino a chi glorifica il naso di Townsend o David Gilmour magro e coi capelli, o viceversa compiange il proprio John Lennon, la propria Janis, il proprio Sid. Senza un minimo di mente fredda, senza un minimo di capacità di relativizzare, perché da qualche parte, probabilmente, sta scritto che il fan debba essere fan e l’artista un dio. E che ogni ‘epoca’ del rock abbia i propri ‘miti’, tanto più se sono stati stroncati in giovane età dalla depressione o dalla sfiga. Dobbiamo quindi convincerci che il povero Jeff Buckley, in potenza, fosse un artista ancora più grande di ciò che ci è stato dato di ascoltare, e lo strumento per farlo è rimuginare su materiale vecchio di anni, oppure, per fare un altro esempio illustre, dobbiamo forse ringraziare la lentezza con procede cui il litigio tra ex-Nirvana e la signora Cobain, che sta permettendo al ‘mito’ del di lei marito di testare la propria sopravvivenza sul ricordo che rimane dei dischi più che sulla pubblicazione di inediti a raffica o di edizioni enhanced degli album. Aspettative enormi, necessità di mitizzare anche le cazzate e di muovere il mercato puntando sul sicuro creano questo genere di mostri (a quando un album-tributo con le cover di Jeff Buckley? Probabilmente venderebbe dieci volte tanto il tributo al padre).
Per fortuna, almeno uno come Beck è sopravvissuto (fisicamente) al proprio esordio, così sarà ricordato come un ottimo artista e non come un ‘mito’.

Articolo di Luca Fusari

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