Teatro delle Bambole: dittatura teatrale? Aggiungerei il termine “mafia teatrale”

Teatro delle Bambole

L’attore e regista Andrea Cramarossa fonda nel 2003 a Bari il Teatro delle Bambole  ispirandosi al lavoro sul suono di Gisela Rhomert e al Teatro delle Orge dell’artista austriaco Hermann Nitsch. Tra gli spettacoli ricordiamo Gimpel Tam (Ovvero dell’idiota), Concerto in Sol Maggiore per giardino d’infanzia, La neve cade su tutte le rose, Medea – Sintesi per quattro respiri, Il fiore del mio Genet.

Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te/voi, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?
Il discorso è molto complesso e provo a sintetizzare il mio punto di vista, considerando la situazione in maniera generica. Credo che il segnale più evidente di una crisi culturale possa essere avvertito proprio dalla dissolvenza della società letteraria e dall’assenza di aggregati culturali cioè, come direbbe Emanuele Trevi, “la letteratura ha smesso di pensare” nel segno della normalizzazione. Per me, la crisi culturale, parte da lì, dalla scrittura. Lo stesso riguarda la drammaturgia. Si è dato spazio a bravi scrittori di teatro, sicuramente competenti ma assolutamente mediocri, senza slanci poetici, senza il sentimento del rischio e della voluttà della fantasia, ma solo bravi, competenti, scribacchini del potere (sia “on” che “off”). Tutto ciò è perfettamente in linea con la “crisi generazionale” (se ci riferiamo a quella attuale) che, però, è di una generazione che non sa nemmeno di essere in crisi e che continua perennemente a vivere la propria, immaginaria, esistenza da “under 35”, sostenuta da politiche devastanti e deleterie, atte solamente alla manipolazione dei soggetti impegnati e al mantenimento dello status quo, sottilmente protese al sostentamento della mediocrità e non dell’eccellenza che, come ben sappiamo, è destinata a migrare o ad accontentarsi o a perire. Ovviamente, sono costretto a generalizzare. Questa modalità di rendere conforme tutto, ritengo non sia una maledizione o una “tragedia” voluta dagli dei o da “entità ignote e oscure”, bensì siamo di fronte ad un preciso progetto di normalizzazione iniziato con la denigrazione e lo svilimento di tutto ciò che è appartenuto al passato, per fare spazio al cosiddetto “nuovo”, ossia ad un altro modo di mantenere un nuovo status quo, con altri politici, altre menti, altri “artisti”, altre brutture. Una sostituzione, in definitiva, nessun cambiamento. Quindi, nessuna crisi in senso stretto, perché la crisi porta in sé vera innovazione e vero cambiamento ed è colma di aspetti positivi. La crisi a cui bisognerebbe guardare è sociale, identitaria, sentimentale ed è orrenda, non la definirei nemmeno crisi, è una sorta di abbruttimento dei rapporti tra le persone e di esse con tutto ciò che le circonda. A tale bruttezza si è dato volontariamente spazio. Chiaramente, la generazione degli “under 35” non ha i mezzi per comprendere la propria crisi che è, sì, anche e soprattutto identitaria; ma come possono non essere in crisi se costoro hanno demolito il passato tout court per prendersi uno spazio con il solo uso della forza e non delle idee? Cioè non con la forza delle idee ma con la forza del politico di turno che li ha usati. Il passato a cui si rifanno è un passato artistico – culturale – sociale, troppo giovane da poter mettere in discussione e, ovviamente, la loro contemporaneità è destinata a franare, poiché priva di contenuti e di sostanza e, quindi, hanno imparato a “giocare il gioco”, per dirla con Deneault e a strutturare meccanismi di compromessi e falsità totalmente identici a coloro che li hanno preceduti, rifacendosi, in questo caso sì, ad un passato molto remoto che il nostro Paese conosce benissimo, da assomigliare fortissimamente a dei replicanti del malcostume che ha invaso le nostre esistenze. I “veterani del compromesso” continuano indisturbati il loro massacro dei valori e degli ideali. Posso comprendere e sottoscrivere l’intento di incentivare l’assunzione di giovani lavoratori ma l’essere giovani non ha nulla a che vedere con l’arte e il processo artistico che dura, invece, per tutta la vita. Non può diventare una delle principali discriminanti nell’elargizione di fondi pubblici, sia in fase produttiva che di residenza. Questo può valere per diversi ambiti lavorativi e distretti produttivi ma, di certo, non per quelli artistici che hanno altri tempi e molte, differenti, età e altri stimoli “produttivi”. Dunque, l’irrealtà non combacia con la realtà ed ecco che non può esserci riconoscimento identitario ma solo sofferenza – non per loro under 35 che non se ne accorgono e che si beano dei premi e degli articoli sui giornali, delle residenze e delle repliche nei teatri – ma per tutti gli altri che non appartengono a questa nuova casta fatta da una fittissima rete di rapporti personali, una vera e propria “tabulae gradulatoria” di ringraziamenti a chi, in prima e unica persona, li ha portati al successo, con buona pace di chi ha speso tempo, energia, sostanze, vita, per crearsi una professione e che è stato spazzato via perché over 35 e perché non ha amici influenti e perché, ancora, appartiene all’egemonia del “che palle” (condivisibile espressione di Emiliano Morreale). Tutto ciò non ha alcun senso e non penso sia nemmeno giusto lamentarsi dello stato attuale del teatro perché l’abbiamo voluto noi e nessun altro, dato che, al momento opportuno, non abbiamo reagito ed abbiamo lasciato in solitudine quei pochi che l’hanno fatto. Siamo tutti conniventi perché (quasi) nessuno ha avuto il coraggio di dire “no” quando la “Mediocrazia” era lì a lusingarti, a corteggiarti, a svilirti e tu artista hai ceduto, con i complimenti e il plauso di tutti i tuoi colleghi. La mia generazione è quella composta da persone che stanno, o “stallano”, in una sorta di limbo. A noi hanno insegnato i valori, anche questi non più di moda, e ci hanno sempre detto che, per poter lavorare, era necessario studiare, applicarsi, addirittura essere umili per poter imparare e mettersi sempre in discussione. Non è servito a nulla. Tutto finito nella spazzatura, in una visione “bentomiana” e “smithiana” dell’economia mondiale, dalla quale anche il mondo della cultura è stato travolto e si vede costretto, oggi, a fare i conti, lasciato a sé stesso, alle fauci degli sciacalli, senza alcuna rete di protezione. Per lavorare devi soltanto avere meno di 35 anni e “saperci fare”. Questo sembra e questo basta, perché lì ci sono i fondi ai quali attingere, oppure nel settore del sociale e welfare, che alimenta tutti gli ibridi di teatro-sociale, teatro-terapia, danza-terapia, ecc. ecc. Sappiamo quanto in Italia il “saperci fare” sia fondamentale per la carriera e che ciò che vai a rappresentare in scena sia totalmente secondario. Credo che la mia sia la generazione dei delusi, dei traditi, degli incompiuti, indignati da uno Stato opportunista e falso che preferisce avere sudditi attorno a sé piuttosto che persone pensanti, in grado di sostenere un punto di vista critico, comunicativo, coinvolgente, innovatore.

Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?
No, secondo me, no, non è così. Di idee teatrali “forti” ce ne sono tante, tantissime, alcune anche con enorme valore artistico. Il problema non è questa presenza o assenza ma è della “persona–artista” e della sua difficoltà a dover scendere a patti, quei patti necessari a contattare il potere, quello stesso potere che potrebbe mettere in luce le idee “forti” e che, invece, glissa, sia perché non è quasi più in grado di riconoscere il talento e sia perché l’arte, per sua natura, è destabilizzante e destrutturante, mai confortevole, è inadatta a questi tempi e, quindi, NON si vuole che le idee “forti” circolino a favore delle solite idee e di quelle che fanno tendenza e creano denaro, commercio, vendibilità immediata. L’arte ha tempi lenti e lunghi, specie se riferita al suo valore economico che, alle volte, è inestimabile e questo vale anche per le opere teatrali. Il tempo dell’arte è enormemente prezioso, può “salvare” un intero Paese, una comunità, rispettandone la diuturnità. A tal proposito, giusto per citare un nostro artista e le sue opere, mi viene in mente Danio Manfredini e la sua, incredibile, difficoltà odierna a far circolare i suoi spettacoli. Ecco, credo che i suoi spettacoli siano opere d’arte e quando vado a teatro ad ammirarlo, mi sembra così svilente dover pagare un biglietto, poiché nessun costo potrebbe mai essere sufficiente a compensare ciò che vedrò di lì a poco.

Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa?
La funzione sociale del teatro è sempre la stessa da migliaia di anni e cioè compiere la catarsi delle paure degli spettatori; e poi, condurli verso la Bellezza, la Grandezza… Far vivere un Sogno fatto di Poesia e di Incanto, in una sorta di abreazione inconsapevole. Oggi, tuttavia, l’arte teatrale è stata sottoposta ad un avvilente processo di abbattimento, col maldestro tentativo di renderla più “accessibile”, più adatta alle masse. Ecco, c’è anche questo da tener presente nella crisi del teatro: la massa. Non esiste più il popolo che è stato sostituito dalla massa; il processo di abbattimento del teatro operato da una certa classe politica e da certi critici teatrali, utilizzando le giovani forze che si sono fatte piacevolmente usare, ha reso lo spettacolo teatrale sempre più di intrattenimento e poco artistico, poco significativo e poco significante, senza lasciar segni e cambiamenti nello spettatore inebetito da tanta confusione e con l’unico intento di fargli trascorrere qualche ora della sua vita in “leggerezza” (leggi: superficialità), senza dover pensare, senza educarsi ad un pensiero critico, per ancor meglio radicalizzare la nuova, strisciante, dittatura che stiamo vivendo. Tutto ciò è possibile solo se la società e finanche il pensiero stesso diventino mediocri. In definitiva non esiste più ed è sbagliato parlare di cultura “pop”, cioè popolare, poiché, appunto, il popolo non esiste più, si è trasformato e tutto viene prodotto per la massa che deve solo consumare e così hanno trasformato anche il teatro in un contenitore (anche con più sale per soddisfare tutti i palati) dove smerciare spettacoli che devono essere venduti e dove il passaggio dell’artista e dello spettatore è sempre meno importante e interessante; quindi, il teatro, sta diventando un non – luogo, come l’aeroporto, le stazioni, le periferie, i condomini, le sale cinematografiche. Il teatro era uno degli ultimi avamposti del pensiero, della libertà, dell’azione poetica. Oggi, tutto questo, sostanzialmente non esiste più e il teatro non soddisfa alcuna relazione, poiché tra teatro e spettatori c’è sempre meno legame, e ciò che soddisfa è più che altro un bisogno, una urgenza, come volersi comprare un vestito, un gelato o farsi una passeggiata con tutta la famiglia in un ipermercato. Altrimenti, non si spiegherebbe questa nuova e improvvisa modalità di avvicinamento dello spettatore all’arte teatrale sempre più spaesato, sempre più ignorante, un approccio all’ambiente teatrale simile alla relazione che egli ha instaurato con la TV di casa sua, con la spasmodica tentazione di filmare tutto con lo Smartphone, fare foto, ora persino filmare e trasmettere in diretta la messa in scena. Gli spettatori devono capire che il teatro è un luogo sacro ed è un bene per loro capirlo, per la loro anima, per la loro coscienza. Gli attori dovrebbero saperlo già. Con la musica classica e con la danza classica, l’operazione di abbattimento della sacralità dell’arte è più difficile da attuare e, infatti, sono ambiti pressoché intaccati. Spero restino tali.

Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?
Chi è preposto ad accogliere, guardare, valutare, evidentemente decidere, non va in questa direzione. Sono i soldi, il potere, oggi più che mai, le vacanze alle quali tutti hanno diritto, quanti soldi incassi a fine mese, quante repliche piazzi in un anno, a quanti e a quali festival partecipi, quante recensioni e da chi firmate, il buio della leggerezza e il buio dell’idiozia che viene scambiata per sacra follia, a determinare l’evento innovatore, che non innova un bel niente poiché pensato esattamente per ristabilire un potere vecchio e ammuffito, sempre quello che sta seduto lì e in realtà non se n’è mai andato via, non si è mai alzato da quella poltroncina e ha soltanto cambiato la propria maschera e il proprio volto. Un gruppo di ricerca come il mio, il Teatro delle Bambole, che fa ricerca con serietà e dedizione da anni, è chiaro che non potrà mai essere preso in considerazione da queste persone, perché ciò che proponiamo è arte e questa, ripeto, è scomoda, fastidiosa, pone troppe domande, troppi disequilibri, troppo disorientamento, troppa “scapigliatura” (non quella artistica di metà ‘800) e, oggi, nessuno vuole farsi stropicciare la “messa in piega” (più importante della “messa in scena”), crogiolandosi in una sorta di novella borghesia che non ama emanciparsi da sé stessa a meno che non abbia a priori dato il proprio consenso a farsi turbare un po’ (ma sempre con simpatia). Non possiamo competere con chi mette in scena un prodotto fatto proprio così come deve essere fatto, in modo da sembrare alternativo, da affascinare al punto giusto senza destabilizzare troppo, in modo da continuare a lasciare tutto perfettamente immutato, possibilmente rifacendosi agli anni ’60, prodotto che, ricordo, viene realizzato e divulgato con soldi pubblici, quindi più forti sul piano della concorrenza che, in questo modo, supera la slealtà e diventa annientante. Rendersi conto di quanti e quali danni tutto ciò oggi sta causando, è molto difficile. Ci vorranno decenni prima di capire quanto male è stato applicato questo potere decisionale rispetto all’innovazione artistica. Meglio andare altrove, non necessariamente in un altro Paese ma in un “altrove” che puoi creare con le tue stesse mani, da solo o con gli artisti che vogliono fuggire dalla mediocrità, realizzando un nuovo centro di aggregazione culturale ontologicamente sensato (che non è solo uno spazio teatrale, materialmente e concettualmente parlando), del quale, prima o poi, tutti sentiranno il bisogno di tornare poiché, in questi discorsi, ciò che spesso si tende a dimenticare, è l’essere umano in quanto tale.

Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?
Lo Stato italiano sostiene solo il teatro che serve a mantenere lo status quo. Quindi, no, non sostiene tutti ma soltanto alcune realtà, in barba al Parlamento e alla tutela delle minoranze, alla libertà di pensiero e di espressione e alla dignità del lavoratore.

Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te/voi.
Dire “no”, avere il coraggio della rinuncia e del sacrificio. Avere il coraggio di protestare e di scendere in piazza, con decisione e continuamente. Avere il coraggio di decidere di non essere ignoranti e informarsi, farsi i fatti degli altri, e smetterla di lasciar correre e fare finta di non vedere. E poi, sicuramente, riportare l’arte al centro del discorso e non i soldi, i numeri, il potere. Basta con queste carriere decise a tavolino e, soprattutto, realizzate coi soldi pubblici. Basta con queste amicizie scolastiche volgari e deprimenti. C’è bisogno di arte, arte e ancora arte. C’è bisogno di Bellezza.

Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”? Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?
Mah… Non saprei. Non ho proprio nulla contro i classici e penso che non debbano essere tolti dai cartelloni dei teatri. Anzi, al contrario, andrebbero conosciuti, approfonditi, soprattutto dagli attori e dai registi, giovani e meno giovani. La rappresentazione di opere classiche non dovrebbe determinare l’esclusione della drammaturgia moderna e attuale. Dovrebbe esserci spazio per tutti, con buon senso e apertura mentale e spirituale. Se non c’è conoscenza non può esserci conflitto e quindi pensiero nuovo e senza pensiero nuovo non c’è nuova rappresentazione. È il famoso taglio col passato, questo recidere a tutti i costi ciò che è avvenuto per allontanarlo da ciò che è odierno. Ma perché? Perché? Datemi delle ragioni plausibili e non slogan privi di contenuti. Che senso ha? La memoria a cui ci si rifà, oggi, è una memoria breve, brevissima, ossia una moda del momento. È tutto destinato all’obsolescenza prematura, solo che qui stiamo parlando di persone e non di macchine. E poi, io non credo alla parola “contemporaneo”. La trovo assurda se applicata all’arte. Quindi, come potrei avere qualcosa contro i classici? Infine, credo che i direttori artistici abbiano sempre meno potere decisionale. Sono i primi ad essere confusi e sono sempre meno ispirati. Pertanto hanno sempre più difficoltà a riconoscere il talento che, come ben sappiamo, può facilmente essere travisato e confuso con la stupidità. Una volta commesso l’errore, sempre più evidente e con sempre maggiore frequenza, ecco che “coloro che decidono” non possono tornare indietro in merito alle loro scelte artistiche, altrimenti passerebbero loro stessi per stupidi e chi vuol passare per tale?

Si può parlare di “dittatura teatrale” nel mondo delle arti in scena? Se sì, perché?
Ma certo! Ma la dittatura è nel nostro vivere ormai, è nella politica, è nella società, è questa la direzione che stiamo prendendo. Esiste già, solo che è difficile notarla perché è estremamente subdola e strisciante. Come potrebbe non esistere una dittatura teatrale? Certo che esiste e aggiungerei anche il termine “mafia teatrale”, se possibile. Fondamentalmente, essa esiste perché è proprio attraverso la cultura che la dittatura può manipolare la gente e stabilirsi sempre più nel tessuto sociale. La cultura, oggi, è propaganda, non è arte. L’arte non c’è più, ci sono i nomi e i cognomi che fanno trend, che sono moda, che sono un marchio, che servono a mantenere la massa come unico, informe e indefinito blocco di clienti. Tra un po’, anche gli spettatori non si chiameranno più spettatori ma clienti, proprio come i pazienti di un ospedale, gli studenti di una scuola o i lettori di una biblioteca. Già nel cinema si ravvisano queste anomalie. Posso fare diversi esempi. Il film “Quo vado” di Checco Zalone, grande successo della passata stagione, è stato paragonato alla benemerita Commedia all’Italiana, sia da eminenze politiche che culturali, dimenticando che quei film che hanno fatto grande la storia del cinema e non solo italiano, erano, appunto, per il popolo, contribuivano cioè alla discussione, al confronto e generavano conflitto. E le discussioni c’erano, come anche il confronto e i conflitti. “Quo vado”, no, tutto questo proprio non è ma solo un prodotto per le masse da usare e gettare via. Un prodotto che si sforza d’essere simpatico dimenticando che l’arte di far ridere è, appunto, un’arte. Il sodalizio politica – “intellettuale” – operatore culturale, viene confermato dalle affermazioni di questi soggetti che determinano ancora più confusione e l’allontanamento dello spettatore libero dal cinema, in questo caso, e dal teatro. Concordo sulla definizione della Democrazia data da Burzio e cioè che “si ha regime democratico quando le élites si propongono e non si impongono alle masse”. Una serie di lavoratori dello spettacolo vengono imposti e sostenuti perché specchio della propaganda politica del momento. Il nuovo dispotismo che ci opprime, in realtà, ci ha degradato spiritualmente ed intellettualmente ma senza averci tormentato, come avviene solitamente con le dittature evidenti ed è per questo che, oggi, non ci accorgiamo di non esercitare affatto la nostra democrazia. Insomma, ci sono diversi segnali di dittatura teatrale che non deve confrontarsi con una solida controparte poiché la rivoluzione messa in atto dagli artisti oggi è totalmente anestetizzante, verosimilmente, assente, credo per via di una strana forma di omertà condizionata dalla paura e dalla precarietà che da sempre ricatta i lavoratori dello spettacolo. È chiaro che in questo clima non c’è molto da fare se non dormire o rassegnarsi. O svendersi. O sognare ad occhi aperti una realtà differente.

È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune?
Sì, è possibile e già sta avvenendo. Oggi esistono diverse realtà che hanno cominciato a lavorare sempre più profondamente nel proprio territorio, avvicinando persone, pubblico, avvicinandole con amore all’arte teatrale, pur creando un certo disequilibrio, ponendo questioni e quesiti, destabilizzando nella discussione e nel confronto. E questo gesto è importante, fondamentale, sia perché ha una ricaduta nel sociale e sia perché, con molta cautela e lentezza, si riprende a parlare di arte e di connessione dell’essere con l’esistere attraverso la sua manifestazione. C’è bisogno, però, di un territorio, uno spazio, un luogo, una zona franca che non può più essere la struttura teatrale, ed è questo spazio il vero “punto in comune”. Ad esempio è ciò che il Teatro delle Bambole sta facendo ormai da anni. Abbiamo un piccolo festival di letteratura (“filecenza! Libri sotto gli alberi”) che, da cinque anni, vede avvicinarsi sempre più persone; un festival delle arti che raccoglie attività teatrali, cinematografiche, artigianali, tersicoree, scultoree… (“Luccica”); abbiamo un progetto di alta formazione per attori arrivato al suo secondo anno e conclusosi con enorme successo (“Io: Stupore”). Tutto ciò avviene in una masseria di fine ‘700, “Masseria Carrara”, in un’area degradata e periferica tra le città di Bari e Modugno; un’oasi, un luogo magico e sospeso dove la gente non si sente giudicata e torna felicemente perché sa che sarà accolta nell’arte, sa che, se vuole, può trovare elementi di crescita personale, assieme agli artisti. Ecco, noi abbiamo risposto ad una necessità e determinato una relazione con queste persone che ormai ci seguono. Noi non le usiamo per soddisfare il nostro ego e loro non ci usano perché non sanno come trascorrere un’ora della loro vita. Abbiamo provato a dare un senso. Per noi, gli spettatori, sono ancora tali e non clienti. E sono sempre di più. In Italia non siamo gli unici, esistono molte altre realtà simili alla nostra, che non ricevono sovvenzioni pubbliche o private, che non svendono la propria arte alla prima lusinga e che non si sentono in dovere di cenare con questa o quella persona per poter piazzare una replica del proprio spettacolo. Esistono molti artisti così. Spero di conoscerli, di incontrarli e spero sia possibile unirci tutti costituendo un grande luogo per gli artisti e per gli spettatori. Un luogo puro, bello, pulito.

Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole?
Senza lo spettatore il teatro non esisterebbe. Sarebbe letteratura. Quindi è fondamentale almeno quanto la letteratura teatrale stessa lo è per gli attori e i registi e per i lettori del genere. Certamente tutte le politiche atte alla formazione reale del pubblico sono ben viste. Solo che lo spettatore dovrebbe fare un piccolo sforzo: informarsi, leggere, studiare. Perché no? E dimenticare tutte quelle diavolerie che hanno inventato per distrarlo dagli eventi reali per godersi un sogno, bello o brutto che sia, per un’ora della sua vita. Il pubblico, ormai, non legge nemmeno più il foglio di sala prima della rappresentazione alla quale assisterà (sempre nell’ottica della generalizzazione del discorso). Il teatro resta un’arte a-tecnologica e, a tal proposito, mi vengono in mente le parole di Albert Einstein: “Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà allora popolato da una generazione di idioti”. Se le persone si allontano dal teatro, saranno destinate ad allontanarsi da un mezzo che permette loro di contattare il luogo che più umanamente pulsa dentro di sé.

Prima di salutarvi, ringraziandovi per la collaborazione, vi chiediamo un’ultima riflessione: qual è la tua/vostra missione teatrale? Come immaginate la situazione culturale e teatrale italiana nei prossimi cinque anni?
Lavorando nell’arte e attraverso profondi processi artistici, è difficile, per me, individuare una missione. Noi realizziamo arte. La rendiamo concreta. Siamo artisti e lavoriamo sodo. Forse la nostra missione è il teatro stesso e la ricerca che confluisce in quest’arte. Spesso facciamo enormi sacrifici con ritmi, alle volte, difficilmente sostenibili. Ma lo facciamo con gioia perché è la nostra vita. Il futuro lo vedo incerto e non saprei proprio prevedere cosa ne sarà della situazione teatrale e culturale nel nostro Paese. Confido nell’intelligenza delle persone e nell’umanità che è grande e sorprendente, nella condivisione e nella seppur rarissima solidarietà tra artisti, in vista di un probabile ed esponenziale miglioramento. Mi piace credere, forse illudermi, che le cose, prima o poi, cambieranno per davvero, nel segno di un vivere realmente democratico che tenga conto delle differenze e dei processi artistici che ciascun artista mette in atto, valorizzando, di fatto, il Paese in cui vive. Nell’arte, nessuno può dettar legge. Ciò che possiamo fare oggi è creare un terreno fertile affinché le giovani generazioni siano meno stronze di quelle che le hanno precedute.

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