Rezzamastrella e Anelante, il rito che ridiventa carne e scena

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Ci sono attori e compagnie che, nel corso della loro storia teatrale, hanno sottratto elementi dalla scena, fino ad asciugare persino la parola, e poi c’è Antonio Rezza che, invece, in Anelante amplifica la parola estendendola fino al corpo dei performer. Sì, perché, a differenza dei lavori precedenti di Rezzamastrella, in scena, ci sono ben quattro corpi “assoldati” per distruggere dalle fondamenta tutto quel che il duo ha creato sinora e per ridefinire, ancora una volta, lo spazio scenico. Una volontà radicale, che fa tesoro di tutto quel che Antonio Rezza e Flavia Mastrella hanno finora fatto per costruire nuovi mondi, alla costante ricerca di un percorso figurativo volto al raggiungimento di nuovi tabù da infrangere. Ecco, quindi, la famiglia, la psicanalisi, il sesso e la morte, intesa come la fine di tutto ma anche come una nuova origine (?).

Si ride ancora, per fortuna, e tanto ma, come per tutti gli altri lavori di RezzaMastrella, non si può raccontare la trama di Anelante, non solo perché non è formalmente definibile ma, soprattutto, perché il performer non vuole stabilire un rapporto didattico con il pubblico. Infatti, per chi non lo sapesse, il teatro di Rezza non è legato minimamente a nessun tipo di narrazione o narratività ma segue dei percorsi in cui lo spettatore può perdersi. Non è prevedibile, è libero da intellettualismi al punto da poter essere facilmente compreso anche da un bambino ma è pieno di invenzioni sceniche sbalorditive. Rezza deforma la sua voce, il volto, il corpo, frantuma i ritmi, sospende e riprende riflessioni folli all’interno di una cornice antinarrativa che si spinge fino al vuoto dialettico. Mastrella, per contro, fa esperienza di quel vuoto, in cui tutti gli elementi dell’arte entrano in comunicazione, per modellarlo attraverso un habitat mobile, che mette in piedi mondi in cui sentirsi assenti.

Difatti, uno dei temi di Anelante che si può intuire, o percepire, è proprio la paura dell’uomo che si è fatto comunità, un’ansia che ha permesso a Freud una serie di speculazioni su cui si è fondata una “religione”. Una di queste è relativa alla tesi sull’isteria e sulla sua genesi derivante da un trauma infantile di natura sessuale e incestuosa, poi abbandonata dallo studioso viennese. In aggiunta, è innegabile il riferimento all’ambivalenza emotiva nella relazione padre-figlio, tesi secondo la quale un bambino ama il proprio padre poiché lo considera il migliore tra gli uomini ma questo strapotere paterno getta inevitabilmente nell’angoscia il figlio impedendo l’autorealizzazione del sé.

In questa rappresentazione oscena dell’inconscio, fatto di insiemi infiniti, Rezza tenta un dialogo con nuovi soggetti scenici – i bravissimi Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara A. Perrini, Enzo di Norscia – ma “non c’è dialogo per chi si parla sotto” dando spazio ad una logorrea infinita. Quindi, allo spettatore, resta solo un brusio, un suono reiterato di chiacchiere di persone non abituate ad ascoltare l’altro. L’individuo della società dell’informazione deve difendersi dall’altro e dall’ansia – che, in Fratto_X si materializzava – ma non sa di essere solo uno dei tanti ingranaggi di una macchina che non è in grado di controllare, anche come spettatore teatrale. Infatti uno dei meriti da ascrivere a Rezza e a Mastrella è quello di aver permesso allo spettatore di fuggire dal mondo reale non attraverso un acquisto immediato del piacere, come capita nella maggior parte degli spettacoli prodotti dalle logiche neoliberali, ma attraverso l’eterno dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, tra corpo e mente. Si perdonano, quindi, al performer le lungaggini perché, in compenso, riesce a trasfigurare dolore e morte fino a renderli comici portando, al contempo, l’Arte al più alto livello dove, citando Schoenberg, “si occupa solo di riprodurre la natura interiore”.

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