Napoli Teatro Festival Italia 2016, cos’è rimasto sul territorio?

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Un resoconto finale di un festival di teatro non dovrebbe tirare in ballo nozioni di marketing territoriale ma provare a raccontare quanto l’idea alla base di un’edizione abbia coinciso effettivamente con il prodotto finale. A causa della mancanza di suddetta idea, in un modo fortemente didascalico, proverò ad analizzare il festival seguendo un altro punto di vista. Nel puntuto resoconto di Enrico Fiore, in un passaggio, scrive che quel che manca al Napoli Teatro Festival è l’identità, cioè

la capacità di scegliere fra gli spettacoli necessari e gli spettacoli inutili sulla base di una strategia politica (nel senso nobile dell’aggettivo) e culturale (nel senso latino dell’aggettivo, derivante dal verbo, «colere», che significa coltivare).

Non sono d’accordo e, nonostante Fiore sia una persona molto lucida e puntuale, questa volta ha delineato approssimativamente un problema ben più grande.

Procediamo per gradi: il primo vero problema che l’organizzazione di un festival deve affrontare sono gli obiettivi. Una grande manifestazione culturale, per poter attrarre l’attenzione di un grande pubblico, deve coinvolgere artisti italiani e internazionali accomunati da una medesima sensibilità.

In secondo luogo, deve coinvolgere fortemente il territorio, come in passato ha fatto Eruzioni Festival, sfruttando l’occasione per offrire workshop agli attori professionisti con i protagonisti del festival o incontri universitari agli studenti con studiosi, maestranze, attori e registi. Non basta andare tanto lontano, guardiamo all’esperienza del Giffoni Festival. Dell’unico, fondamentale, incontro in programma, a pagamento tra l’altro, con Eugenio Barba e Lorenzo Gleijeses verrà prodotto un volumetto da distribuire nelle librerie italiane? Credo proprio di no, per fortuna il web ci viene in soccorso con l’articolo di approfondimento di Alessandro Toppi de Il Pickwick.

Poi c’è il programma, che deve avere necessariamente una linea guida per assicurare coerenza ad una kermesse dalle molteplici sfaccettature. Non sto dicendo nulla di nuovo, basta prendere in mano il manuale di marketing delle arti e della cultura di François Colbert. Dalle considerazioni fatte con amici, prima e dopo gli spettacoli, emergeva forte la mancanza di identità di un evento che, sulla carta, prometteva tanto. Un festival manca d’identità quando un’edizione non è percepita dallo spettatore come unica. Dopo averla definita, la si articola attraverso un programma sfaccettato in grado di comprendere tutte le espressioni artistiche del momento. Sant’Arcangelo Festival ne è un esempio lampante. Non dipende, quindi, solo ed esclusivamente da una strategia politica e culturale.

Arriviamo, dunque, a come far partecipare il territorio ad una kermesse così importante ma che sperimenta linguaggi altri. Qui Enrico Fiore è impeccabile quando – cito – dice:

Operazioni come quella teorizzata da Dragone richiedono un lunghissimo lavoro propedeutico sul territorio, cospicui investimenti economici e addetti numerosi e dotati. Altrimenti si corre il rischio d’ingenerare un vero e proprio fenomeno di rigetto.

Se il teatro festival si chiama Napoli Teatro Festival Italia una ragione c’è: bisogna partire dalla città di Napoli, dalla sua storia, dai suoi luoghi, dalle sue scuole, dalle sue università per l’organizzazione di un festival teatrale e il Comune dovrebbe veicolarne la promozione sul territorio coinvolgendo anche le imprese locali perché il teatro può essere un’opportunità per tutti. Bisogna pensare all’evento in un’ottica di condivisione, partecipata, che possa coinvolgere presidi di scuole, facoltà, professori ma anche associazioni culturali e scuole di formazione per poter creare degli incontri formativi ad hoc (all’Accademia delle Belle Arti è stato fatto qualcosa in tal senso?).

Poi c’è lo spettatore: l’organizzazione deve sentire la necessità di creare un flusso turistico ad hoc, come capita a Perugia con Umbria Jazz, creando elementi di specificità comuni – la passione per il teatro e la danza – e un brand riconoscibile, come nel caso di Spoleto che è un vero e proprio caso studio. Umbria Jazz offre dei veri e propri corsi di educazione all’ascolto della musica jazz ed è possibile partecipare, durante la kermesse, a degli incontri monografici con musicisti ed esperti del settore. Mi sono avvicinato alla musica di Lester Bowie grazie a uno di questi incontri, diversi anni fa. Il cittadino comune, a Napoli, invece, come può avvicinarsi al programma del Napoli Teatro Festival? Cos’è stato fatto in tutti questi anni per sensibilizzare la città? Sono state organizzate proiezioni e mostre ad hoc al di fuori del periodo del festival? Abbiamo un archivio-museo consultabile con costumi, scenografie, contenuti video, giornali delle edizioni passate? Che cosa ha prodotto il Napoli Teatro Festival sul territorio?

Infine la scelta delle location, altro argomento molto dibattuto: quest’edizione del festival si è svolta soprattutto al chiuso, in teatri non attrezzati per eventi estivi. Giochiamo con i luoghi comuni che, talvolta, non fa male: Napoli è un teatro a cielo aperto sia per le sue persone che per i luoghi che offre, ci sono associazioni che lavorano bene sul territorio e che offrono percorsi guidati in posti magnifici. Uniamo le due cose, teatro e cultura del nostro territorio, e facciamo conoscere luoghi al di fuori del classico percorso turistico: l’anno scorso, dopo il bellissimo “Giulio Cesare. Pezzi staccati” di Romeo Castellucci alle Terme di Diocleziano, Romaeuropa festival ha organizzato una visita guidata gratuita degli spazi dell’Aula Ottagonale delle Terme. Un’idea semplice che ha permesso allo spettatore di scoprire e conoscere un posto meraviglioso.

Facciamo uscire il teatro dai luoghi teatrali e sfruttiamo le nuove tecnologie digitali per migliorare l’interazione tra spettatore e festival – non serve trasformarsi in un bookmaker sulla pagina social per avvicinare il pubblico allo spettacolo – perché il Napoli Teatro Festival può essere una fonte di vantaggio per tutti ma, soprattutto, per la città, che potrebbe divenire un riferimento obbligato nel circuito dei festival. Sicuramente organizzare un evento di tale portata non è semplice e necessita di tempo ma, al posto della solita kermesse per addetti ai lavori, si potrebbe costruire un evento festoso, per tutti.

Ricominciamo, subito: perché non partire da un’indagine da diffondere nelle università, nei licei e nelle accademie, a mezzo social o attraverso la carta stampata, per comprendere che tipo di festival vorrebbe vedere la città?

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