Magnolia, la recensione e il significato del film di P.T. Anderson

Leggiamo nell’introduzione al secondo volume Einaudi della Storia del cinema: “La storia del cinema americano è una storia grande, smisurata, non comparabile con nessun’altra per le dimensioni economico-produttive, la continuità dei risultati e gli effetti prodotti sull’immaginazione dell’uomo del Ventesimo Secolo”. E’ un modo fra i tanti per avvicinarsi a Magnolia, film che dell’immaginario americano (e dunque di quello occidentale tout court) è la rappresentazione realizzata in una forma che si avvicina all’elenco di stili, di situazioni, di personaggi. Storia di molte storie (è un’altra definizione che va bene per il cinema americano), Magnolia intrattiene lo spettatore con le vicende (s)connesse di un’umanità che si nutre di quello che Ferroni chiama l’immaginario residuale, la spazzatura dell’esistenza, i rifiuti del vivere: uno è un tycoon della televisione che sta morendo dopo una vita di prevaricazioni, un altro è il messia degli impotenti, c’è un altro moribondo che va ad implorare vergognosamente il perdono che non merita.

Paul Thomas Anderson è artefice di un incredibile puzzle narrativo di tre ore che mescola Altman e Cassavetes con De Palma: tutto il sapere di una cinematografia (di una cultura visiva che si è identificata completamente col cinema) condensato in un ipertesto eclettico. Le nove trame che si alternano e si incrociano in Magnolia rendono necessario il ricorso ad una molteplicità di legami transitivi, che vanno dal movimento di macchina fluido e sinuoso, al raccordo cromatico, fino alle panoramiche “elettroniche” che staccano brutalmente da un contesto all’altro. Per non parlare della colonna musicale, che svolge per ampi passaggi un ruolo attivo, quasi di “contrappunto” ejzensteiniano, mentre talvolta opera significative interferenze con la diegesi (basterebbe citare la scena in cui il poliziotto e la figlia del presentatore televisivo gridano per riuscire a sentirsi l’un l’altro sopra il rumore assordante della musica, riproponendo esattamente la condizione uditiva dello spettatore che fatica a sentire il dialogo); e Anderson si concede pure un’incredibile incursione nel musical quando fa cantare a tutti i personaggi del film, in una sorta di iper-karaoke, la canzone di Aimee Mann.

Il lavoro interno all’inquadratura è sottilmente teso a moltiplicare i piani di lettura dell’immagine, per saltare da un livello narrativo all’altro mediante la profondità di campo: è quanto avviene nelle sequenze dei vagabondaggi notturni di Donnie Smith, “coscienza del film” come acutamente nota Daniela Catelli su HALCinema. C’è da dire che Magnolia si presta a numerose visioni, e conseguentemente ad analisi con modelli di riferimento alternativi; una lettura coerente pare impossibile, e in prima analisi si riesce appena a ricondurre gli stili in uso nel testo alla fonte originaria, di cui proponiamo uno schema possibile:

traccia Donnie Smith – il cinema americano dei buoni sentimenti da Frank Capra a Zemeckis
traccia Jimmy Gator – il personaggio è intepretato da Philip Baker Hall, produttore televisivo in Truman Show e in Insider, la traccia utilizza il linguaggio raddoppiato (oggettiva densa e via dicendo) delle recenti produzioni hollywoodiane sul tema televisivo, da quelle citate fino a Edtv e Pleasantville
traccia Partridge – siamo dalle parti di Altman, con Julianne Moore attrice del recente La Fortuna Di Cookie, e ci restiamo anche nella soluzione narrativa finale, debitrice tanto di America Oggi quanto della vena apocalittica di un romanzo postmoderno esemplare come “Rumore bianco” di Don DeLillo
traccia Frank – è lo show di Tom Cruise sovente ripreso nei modi realistici del “teatro filmato”
traccia Kurring – dall’incontro del poliziotto con Rose Gator in poi siamo in pieno Cassavetes-remake, da Gloria a Una Moglie

Si potrebbe continuare a lungo, tanti sono i valori formali che si addensano in Magnolia. La quantità di stili in uso fanno di Anderson il cineasta eclettico che mancava ad Hollywood, e fa bene la già citata Catelli ad allontanare il termine di paragone (cinematografico) altmaniano per introdurre un termine di paragone letterario (ci sarebbe magari da “aggiornare” un pochino i nomi indicati dal critico di HALCinema, che cita il romanzo russo).
Il prologo che si organizza sul tema delle “coincidenze” (fulminante paratassi manierista ), il piano-sequenza virtuosistico negli studi televisivi della trasmissione “Che cosa sanno i bambini?” (un pezzo di bravura che ricorda i primi cinque minuti del Falò Delle Vanità), la pioggia apocalittica del pre-finale, sono soltanto alcuni dei momenti caldi di un film che cerca, anche nella durata, una ragione d’essere per il cinema; Magnolia è un film che si relaziona alle grandi narrazioni del romanzo postmoderno (i quattrocento personaggi di Pynchon ne “L’arcobaleno delle gravità”, le trame incrociate di “Underworld”); in più c’è Tom Cruise, migliore attore americano del decennio.
Sicuramente non c’è tutto il cinema che vorremmo vedere, in Magnolia; ma quasi.

Articolo di Luca Bandirali (reVision)

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