L’uomo nel diluvio e il sogno berlinese di Amendola/Malorni

Malorni orizzontale

Carmelo Bene, in un’intervista, raccontò che, durante il suo soggiorno triennale in Russia, recitava senza sovratitoli perché il pubblico lo intendeva. In una delle sue apparizioni al Maurizio Costanzo Show precisò, alla solita domanda di Costanzo su talento e genio, che, nel quotidiano, il linguaggio ci inganna perché non è detto che parlando la medesima lingua ci si intende.
Parto da questo ricordo per parlare de “L’uomo nel diluvio” di Valerio Malorni e Simone Amendola, racconto intimo su un trentenne che, come un moderno Noè, viene messo alla prova e decide di emigrare in Germania per garantire alla sua famiglia un’esistenza serena.
Il linguaggio, quella massa multiforme ed eterogenea di segni, è lo strumento che separa e unisce l’attore Valerio a Berlino, dove trova la possibilità di mettere in scena un suo lavoro, Diluvien, all’Istituto italiano di cultura riscuotendo, nonostante la barriera linguistica, un buon successo di pubblico e critica.

In “Brevi scritti sulla fine dell’uomo” di Gunther Anders c’è un apologo, “Il futuro rimpianto”, che vede Noè protagonista mentre sta annunciando l’imminenza di una catastrofe. Vorrebbe costruire un’arca ma nessuno lo prende sul serio perché il giorno del diluvio stenta ad arrivare. Allora se la prende con Dio, crede di essere vittima di un raggiro e decide di scendere in strada vestito a lutto, con il capo cosparso di cenere al punto che gli astanti gli chiedono il nome del trapassato che sta piangendo. E lui risponde: <<Molti mi sono morti>>. Non contenti, gli chiedono quando sarebbero morti questi molti e lui conclude dicendo che domani è accaduto e che <<tutto ciò che c’era prima del diluvio, sarà ciò che non è mai stato>>.

In questa frase finale dell’apologo di Anders è condensato tutto il senso del testo di Amendola/Malorni perché solo consegnando la catastrofe al passato, l’uomo può essere veramente libero e uscire dal diluvio ammirando pienamente un mondo rifondato. Purtroppo la condizione raccontata da Malorni accomuna tutti noi e, soprattutto, noi trentenni, noi quarantenni, in cerca di una stabilità economica, emotiva, sociale, ci poniamo sempre la stessa domanda sfiancante: <<Se domani non ci sarà più nessuno, che senso ha sognare oggi?>>. Per questo partiamo e abbandoniamo i nostri luoghi di origine, le radici della nostra esistenza, adottando un luogo comune come salvavita a buon mercato per salvarsi. Sarebbe bello costruire una mappa dell’emigrazione, con serie e linee ad indicare le distanze, che si modificano senza sosta, di coloro che, partiti, vedono il fallimento più visibile in un mondo che diventa protagonista del suo scorrere senza infiltrazioni.

Malorni, però, è anche un attore nel diluvio, che glorifica il testo, come la statua di Blanchot glorifica il marmo, giocando con una tonalità di narrazione, come giustamente sottolinea Toppi, basata sulla ripetizione verbale, sulla confessione fino alla condivisione di una lettera personale. Bachelard, nella “Poetica dello spazio”, dice che “l’essere che ha trovato riparo sensibilizza i limiti del suo stesso rifugio nella più interminabile delle dialettiche”. Probabilmente Malorni, mettendo in scena “L’uomo nel diluvio”, ha trovato una casa in cui stare, nonostante tutte le difficoltà, che, probabilmente, non sarà il luogo dei sogni di Bachelard, dove rifugiarsi contro ogni ingerenza estranea, ma è già un punto di arrivo e di partenza, già diventato cifra narrativa, che si iscrive in una cartografia del teatro contemporaneo in corso d’opera.

Visto a Casa Babylon Theatre, nell’ambito di Scenari pagani 2017, il 19/02/2017

 

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