Luna Rossa di Capuano è il film sulla malavita da riscoprire

Luna Rossa ti colpisce come un pugno nello stomaco. Non ti dà neppure il tempo di pensare, solo di sentire il dolore. Forte, improvviso, proprio lì alla bocca dello stomaco.
Arroccati all’interno del loro moderno castello, alcuni membri della famiglia camorrista dei Cammararo attendono con ansia l’esito della battaglia con la famiglia rivale. Un’intera generazione come gruppo di fuoco. Le donne attendono i loro mariti, i figli i loro padri, i genitori i loro figli e generi. La battaglia è vinta, il nemico sconfitto, ma le perdite sono ingenti. Il film si apre nel segno del sangue. La lotta per il potere non è più lotta contro un nemico esterno, ma lotta intestina violentissima, senza alcun prigioniero. La famiglia Cammararo regredisce allo stato primordiale. Tribù primitiva senza alcuna regola, o meglio con un’unica norma che annulla tutte le altre “Gli uomini devono imparare le due regole della sopravvivenza, fottere è la prima regola, uccidere la seconda”. Come a dire “crescete e moltiplicatevi” a dispetto di tutto e di tutti. Animali che conducono un’esistenza simile ai cavalli rinchiusi nelle loro stalle. In questa società regredita all’epoca preistorica ad emergere sono le donne. Potenti, senza scrupoli, decise nei loro fini. Non esitano ad usare i loro uomini, a farli ammazzare tra loro come cani rabbiosi per raggiungere il potere. Un unico figlio si salverà dalla mattanza famigliare, sarà lui a porre per sempre fine alla famiglia Cammararo.

Luna Rossa è girato seguendo uno stile asciutto, quasi documentaristico. Nessun commento alle immagini mostrate, nessun giudizio morale. Immagini e sentimenti liofilizzati, ridotti ai minimi termini. Nella tribù camorrista non esistono affetti, le parentele risultano incerte, i legami di sangue anche. L’assenza di sentimento rende incerti i contorni della tribù. Fratelli che si accoppiano fra loro, madri che se la fanno con i propri figli, amanti uomini ed amanti donne che convivono senza alcuna dignità sotto lo stesso tetto. Anche lo scontro generazionale, appena abbozzato, viene risucchiato dal vortice di sangue. I figli si cibano dei genitori e viceversa. La tragedia greca, il teatro elisabettiano, rappresentano solo il modello narrativo, lo schema da seguire per un racconto che, pur parlando di un presente a noi molto vicino, viene totalmente declinato al passato remoto. Il mondo preistorico è l’ambiente dove vivono ed agiscono i Cammararo, il loro castello è un’enorme e fredda caverna calata quasi sempre nella più cupa oscurità. Non per difendersi dai nemici, chi oserebbe tanto, ma per celare al mondo i riti e le malefatte che avvengono all’interno. Dopo una prima parte che prepara il campo all’inevitabile tragedia dell’autodistruzione tribale, presentando luoghi e delineando i personaggi del dramma, la seconda parte è un ininterrotto ripetersi della stessa azione. Una lunga litania di morte all’interno della quale cambiano solo le vittime e gli assassini. Il film si chiude così in un estenuante vortice a spirale che mira al cuore della tribù. Morte chiama morte chiama morte chiama morte… ad infinitum. Sempre uguale nei metodi, nei fini. Una sequenza che ripete sempre se stessa, senza alcuna variazione se non nei volti dei protagonisti. Nel mondo moderno, fatto di telefonini, belle macchine, armi sempre pronte all’uso, politici e alti prelati corrotti, irrompe dalla porta principale la preistoria trascinando tutto all’ammasso. La bestia umana avrà la meglio su tutto. Una luna rosso sangue resterà unica testimone del massacro.

Articolo di Fabrizio Pirovano (reVision)

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