Lou Reed: la discografia (parziale) del poeta del rock

Pubblichiamo integralmente l’articolo che Mauro Carassai, Ilario Galati e Alfonso Tramontano Guerritore pubblicarono sul compianto Musicboom. Alla discografia mancano gli ultimi album ma è un pezzo veramente imperdibile se volete cominciare ad addentrarvi nel mondo di Reed.

Lou Reed (1972)

L’anima maledetta di uno dei gruppi piu’ sconvolgenti della storia del rock.
La fine dei velvet e l’inizio del percorso solista di un uomo definito l’incrocio piu’ riuscito tra Bob Dylan e il marchese De Sade. Una raccolta di canzoni ancora intimamente legata all’atmosfera piu’ pop del “velluto sotterraneo”.
Il rock’n roll di I can’t stand it, le inquiete morbosità di ocean le atmosfere intime di Lisa says, l’aspirazione melodica di ride into the sun. Sono canzoni messe insieme alla rinfusa, frutti in bilico tra semplice pop e tentativi naufragati nell’incertezza.
Se il cerchio si compirà solo dopo una travagliata circonferenza, se il centro è ben lungi dall’essere individuato, l’incompiuta confusione del debutto è necessaria come un preludio.
Del resto, non è forse dai nebulosi laghi di caos che germogliano gocce danzanti come improvvise stelle cadenti?
Alfonso Tramontano Guerritore

Transformer (1972)

Il capolavoro? Sicuramente un disco che trova fertile ispirazione dalle memorie Warholiane di un mondo ambiguo e deviato, la factory, la droga, la superficiale smania di essere e contemporaneamente apparire, il glam. Tutto racchiuso nell’estetica pop dell’universo urbano di New york.
E le canzoni, vere gemme da spazzatura racchiuse in un multiforme bidone decorato da serigrafie seriali.
Vicious, lasciva descrizione su riff indimenticabile che apre il disco, Il celebre Perfect day riesumato in modo impeccabile nel film cult Trainspotting, la squallida parata di relitti da suburbia Walk on the wild side, quasi una moderna chiave di lettura del desolation row dylaniano.
E l’infinito giro compiuto dal “Satellite of love”, un giro d’amanti e pianeti legati d’allucinata ironia, fino al ricordo dell’attentato a Warhol in Andy’s chest.
Su tutto una patina di marcio e lustrini, come dire il diavolo e l’acqua santa…….
La produzione di queste perle non poteva che essere opera di David Bowie e il suo fido chitarrista Mick Ronson, ovvio, ancora oggi considerati di grande influenza per le sorti di Lou.
Alfonso Tramontano Guerritore

Berlin (1973)

L’Europa irrompe malinconica nel paesaggio , improvvisamente le nebbiose atmosfere di decaduti cabaret tedeschi del primo novecento costruiscono ex novo uno scenario devastato su cui animare una storia concept. Due personaggi e la loro relazione, Jim e Caroline, come marionette tra le tristi note di piano e il simbolico muro a dividere due sfere di una stessa relazione. Una scelta che resterà a lungo incompresa per un opera in realtà viscerale, torbida e soprattutto triste. Berlin, il brano omonimo ripescato dal disco d’esordio, introduce subito il tema, tra piano e ricordi, Lady day accomuna la protagonista a una grandissima del jazz di sorte comune, giu’ nell’abisso di droghe e solitudine, parole di odio e amarezza, confronti a muso duro e ghigni incomprensibili d’anfetamina, fino all’epilogo di the bed e quella canzone triste,sad song in chiusura.
Le diverse prospettive di un inevitabile declino sentimentale s’intrecciano continuamente, fino al dolore, evocato anche nello squallore dei corpi, e la morte, in quella stanza, con quel rasoio.
Un album che rimane lì a guardarti, dilaniato e incredibilmente sincero, per la prima volta impregnato di autobiografia, droga, instabilità.
Era il periodo del primo matrimonio di Reed, e tutta questa lunga poesia fa pensare che non dev’essere stato divertente.
Alfonso Tramontano Guerritore

Rock ‘n’ roll animal (1974)

Un’introduzione che spiega già da sola il senso di uno dei live piu’ celebrati di sempre.
Lo stacco improvviso che conduce al cuore di Sweet jane con l’inconfondibile chitarra è il primo assaggio: un menu di soli cinque brani, tirati allo spasmo, intensi, asciugati nel suono e trascinati lungo pericolosi bordi dove non c’è distinzione tra uomo e performer.
Heroin è il resoconto inequivocabile di chi sa quello che fa, ma proprio per questo non ha nessuna voglia di fermarsi.
La dissoluzione e il fascino malato del periodo velvet non era che l’inizio.
White light/White heat è martellante, insistita, distorta, degno esempio del miglior sound seventies.
L’unica incursione nel repertorio solista è Lady day, da Berlin, ricca di pathos e tensione.
In chiusura Rock’n roll , a ribadire senso, se mai ci fosse stato dubbio, del rock stesso, attorcigliata su furiosi assoli.
Una sconvolgente posa in copertina lascia solo immaginare cosa potesse scorrere nei pensieri e nell’animo di Lou reed, anche se ancora non riesco a capire da dove venisse quella voce, quell’intensità, quell’assurdo vivere…
Tra queste note c’è Rock.
Molto piu’ che musica.
Alfonso Tramontano Guerritore

Sally Can’t Dance (1974)

Probabilmente il punto artistico più basso della carriera di Reed, “Sally Can’t Dance” è anche uno dei suoi album più venduti. Strano destino per un album studiato per capitalizzare il successo di “Rock’n’Roll Animal”, e che vede Lou ridotto quasi al ruolo di ospite. Canzoni mediocri e arrangiamenti costantemente al limite del ridicolo lo rendono poco piu di una parodia di “Transformer”. Lo stesso Reed sembra accorgersene, comparendo in copertina (orribile anche quella) con i capelli tinti di biondo – una parodia di se’ stesso – e risultando curiosamente assente nelle otto tracce che compongono il disco. Musicalmente, il tutto si risolve in una serie di esercizi di slavato funk-rock danzereccio (a dispetto del titolo) mal supportato dalla inadatta voce di Reed, che per la quasi totalità dei pezzi si limita a cantare e suona la chitarra in una sola traccia. Si salva la sola Kill your sons, unico pezzo vero in mezzo a tanta paccottiglia, in cui Lou rivisita le sue esperienze con l’elettroshock su un tappeto musicale dal sapore epico, ed è quasi incredibile che sia composto dalla stessa persona che canta la mediocre title-track come un Todd Rundgren ubriaco. Nonostante i problemi di Lou con le droghe ne abbiano limitato il coinvolgimento nel progetto e il fatto che lui stesso lo criticò pesantemente, “Sally Can’t Dance” entrò nelle top 10 americane e divenne l’album di maggior successo di Reed, probabilmente una riscossione tardiva del credito guadagnato da Transformer e Rock’n’Roll Animal. Un successo che rese ancora piu amaro Lou: “Fantastico – peggiore è il disco, maggiore è il successo. Se nel prossimo disco fossi completamente assente arriverebbe al numero uno“. Sono in molti a pensare che “Metal Machine Music” sia il risultato di queste considerazioni.
Salvatore Patti

Lou Reed Live (1975)

Successo commerciale in grado di tenere buona la RCA dopo l’insuccesso dell’anticommerciale Berlin (ma opera esplicitamente disprezzata dal suo stesso autore), Lou Reed Live rappresenta poco più di una luce spia nel quadro comandi di una macchina spilla soldi come il musicbiz. Come il volto di Lou in copertina (immortalato da Oliviero Toscani) sembra preannunciare, l’album ha ben poco da offrire oltre a un cappellino e occhiali scuri (indossati forse per nascondere i segni degli abusi che gli erano valsi all’epoca il secondo posto sulla ‘lista della morte’ dopo Keith Richards) sostituiti al fard e ai piercing di quanti avevano potuto già apprezzare la dimensione live di “Rock’n’Roll Animal”. Il materiale d’altronde è anch’esso tratto dalle registrazioni del ’73 e i classici Reed-iani non inclusi nel precedente live li ritroviamo qui in altrettante versioni heavy ultradilatate e zeppe di electric guitar solos. La scelta tra i due dischi dal vivo si riduce a decidere a quali brani siete più affezionati dato che ricompare anche qui il bagaglio intramontabile dei Velvet (vedi una scoppiettante versione tutta lustrini di I’m Waiting for the Man) affiancato da un filotto di pezzi da novanta come ViciousSatellite of Love e Walk on the Wild Side. Un’apoteosi ‘fatta ad arte’ del Lou Reed dei seventies.
Mauro Carassai

Metal Machine Music (1975)

Anche a distanza di quasi trent’anni e ad ormai metabolizzazione avvenuta di intere correnti musicali variamente collegate a questo disco (rumorismo, isolazionismo, industrial), credo che sia necessaria la stessa dose di ironia richiesta all’epoca in cui uscì per comprendere l’esatta portata di una delle poche vere “truffe del rock’n’roll” confezionate con stile ed intelligenza davvero encomiabili. Il disco vive di una sorta di fibrillante polarità elettrica: capolavoro concettuale e insensata cacofonia di suoni alla rinfusa; fine operazione avantgarde curata in ogni dettaglio e Reed che confidava di essersi inventato metà della strumentazione riportata nel retrocopertina; i dirigenti della RCA convinti dal suo discorso forbito nel presentarlo come un grandioso capolavoro artistico (frutto di sei anni di lavorazione) e Reed che dice agli amici di esser dovuto scappare al bagno per una liberatoria beffarda risata. Il disco offriva nell’edizione a doppio vinile un’assordante sequenza di rumore bianco, frequenze disturbate, suoni urticanti e continuati estremismi auditivi in facciate uguali della durata di 16 minuti, fatta eccezione per il lato quattro che si chiudeva con un solco concentrico che lasciava all’ascoltatore il compito di toglierlo dal giradischi una volta stremato dall’esperienza/tortura). A tutt’oggi la confezione seriosa e le note accademico-surreali scritte di pugno dallo stesso Reed nel booklet fanno sì che il suo nome venga inevitabilmente annoverato nell’elenco delle opere di ricerca musicale sul rumore tra nomi come quello di Luigi Russolo o quello dei Throbbing Gristle(quando forse sarebbe meglio tirare in ballo il nome di Andy Kaufman). Nonostante sia possibile scorgere in diversi momenti dell’album spunti ed intuizioni interessanti, il vero senso del disco forse è proprio nell’ambiguità di un’iniziativa prettamente ‘mediatica’ in grado di restare come un silente barometro delle interpretazioni critiche che di volta in volta vi vengono proiettate. Per chiunque decida di concedere una chance a questo disco, il consiglio è quello di affiancare al sopraffino studio operato dalla rivista di settore di turno, la seguente dichiarazione di Reed: “Volevo fare piazza pulita e liberarmi di tutti quegli stronzi fottuti che vengono ai miei concerti e si mettono a urlare Vicious o Walk on the Wild Side”.
Mauro Carassai

Coney Island Baby (1976)

Pubblicato nel 1976, quando la liberazione gay era ormai diventata cosa pubblica negli States, “Coney Island Baby” ne divenne per molti aspetti il manifesto musicale. Il disco segna la fine del rapporto di Reed con la RCA e resterà campione di vendite nella discografia del nostro fino all’89 (anno di pubblicazione di “New York”). Bisogna ammettere che le ragioni ci sono tutte. L’album contiene composizioni letteralmente splendide come Charlie’s GirlA GiftOoohhh Baby arrivando a rendere davvero difficile qualsiasi operazione di selezione dei brani. Dal punto di vista strettamente musicale può essere considerato come il ritorno dell’interesse per il songwriting puro e semplice da parte di Lou col suo mettere da parte sia l’impatto energetico dell’elettricità di “Rock’n’Roll Animal”, sia le provocazioni sonore di quell’ambiguo gesto punk-intellectual che era stato “Metal Machine Music”. L’album vive della delicatezza compositiva del terzo album dei Velvet (vedi la title track o la magnifica She’s My Best Friend) e della ammaliante ‘franchezza vocale’ in grado di colorare qualsiasi tenue affresco rock Reed abbia voluto raffigurare nel corso della sua pluridecennale carriera (vedi l’irresistibile Crazy Feeling in apertura). Peccato che la sua lucentezza venne all’epoca offuscata dalla contemporanea uscita di autentici pezzi di storia come “Horses” di Patti Smith, “Desire” di Dylan o dalla nascente turbolenta corrente punk inaugurata dal primo album dei Ramones. “Coney Island Baby” resta in ogni caso un album sul quale tornare ad ogni piè sospinto ogniqualvolta si possa dubitare delle innate capacità del nostro.
Mauro Carassai

Rock’n’Roll Heart (1976)

Il disco tiene fede al suo titolo e i semplici versi della title track “I guess I’m just dumb ‘cause I know I aint’ smart, but deep down inside I got a Rock’n’Roll heart” ne spiegano la vera essenza. Il disco venne infatti composto di getto all’indomani della firma del contratto che inaugurò il rapporto di Reed con la Arista dell’amico Clive Davis (dopo l’abbandono della RCA), e sembra vivere esclusivamente di quella immediatezza rock’n’roll che, sebbene innata, Lou aveva potuto mettere a punto grazie ai suoi esordi lavorativi con la Pickwick (casa di edizioni che pagava ai suoi addetti pochi dollari per musicare canzoni jingle pop) e che ora gli tornava estremamente utile per inaugurare l’ennesima svolta. La parola d’ordine tornava ad essere: “semplicità” (sia nel look dove le stravaganze venivano bandite, sia nel sound che, pur variegato, puntava su una forte primordialità di fondo). Nonostante la presenza di molti strumenti (molti dei quali suonati dagli elementi che avrebbero poi preso parte all’omonimo tour che sarebbe seguito), la struttura dei brani resta sostanzialmente elementare: canzoni di due accordi come Bangin On My Drum o Senselessly Cruel, elegiache ballads mid tempo come You Wear it So Well, o trascinanti motivetti swing che farebbero ancheggiare sensualmente chiunque come Claim to Fame. Nel disco trovano comunque posto atmosfere insolite: estemporanee escursioni jazzate molto easy come Sheltered Life o echi dei tribalismi Velevettiani deviati in versione gospel come nella finale Temporary Thing. Ma tutto si mescola nel calderone del nucleo rock dell’album che, non certo uno dei migliori, ricevette recensioni caute e fu premiato con vendite molto contenute. Col senno di poi però è d’obbligo inserire almeno un’avvertenza: due o tre brani – compresa la title track – potrebbero a dir poco entusiasmarvi.
Mauro Carassai

Street Hassle (1978)

A cominciare dal titolo e dalla sua pericolosa assonanza con la ‘feccia di strada’, Street Hassle è l’album di una presa di coscienza ancora più coriacea del ruolo che Lou si trovava a ricoprire nel panorama rock verso la fine dei ’70. Il disco si presenta per molti versi sotto il segno della parola ‘pastiche’ rinvenibile sia nelle citazioni dei versi dei Velvet nell’iniziale Gimmie Some Good Times, sia di quelli del classico della rivolta fallimentare che fu di Bobby Fuller e poi dei Clash nella successiva Dirt (“I Fought the Law and the Law Won”). Via l’immaginario glamour, via la cabarettistica immagine femminea di “Coney Island Baby”, via l’intimismo concettuale di “Berlin”, via perfino la rabbia genuina di “Rock’n’Roll Animal”. Basterebbe l’omonimo lunghissimo brano diviso in tre parti a sintetizzare la nascita di un marchio di fabbrica ‘Reed’ ormai lontano da qualsiasi stereotipo di riferimento che non sia semplicemente il suo volto in copertina: Reed menestrello boogie pop (Wait), Reed cantastorie dei bassifondi (Street Hassle), Reed poeta disincantato (Slipaway), Reed sornione provocatore sociale (I Wanna Be Black), Reed spina nel fianco di un’America ipocrita che non vuole sentir parlare di sniffare coca o di pratiche sessuali ‘contro natura’ (l’album tra l’altro coinciderà con la fine della sua relazione con Rachel, icona del travestitismo newyorchese e musa ispiratrice di Reed per tutti i ’70). Prova ne sia che il disco non venne passato per radio pur ricevendo un’infinità di recensioni positive. Registrato dal vivo durante i concerti in Germania e poi mixato a New York, il disco può essere tranquillamente affiancato ai dischi più celebrati del nostro del calibro di “New York” o “Magic and Loss”. Contiene diversi brani memorabili provenienti dai tempi di “Coney Island Baby” come la già citata Dirt o Leave Me Alone e addirittura un cameo vocale di Springsteen nella title track.
Mauro Carassai

Live: Take No Prisoners (1978)

“Take No Prisoners” è sicuramente uno tra i più bei live di tutti i tempi, non tanto per le solite ragioni legate alla possibilità di saggiare la resa in real-time di quanto registrato in studio, quanto per un’inedita predominanza della controparte verbale che si infiltra in ogni dove rendendolo un pezzo unico nella vostra discografia (è già dall’iniziale suono di un cerino che accende una sigaretta e dalle ‘scuse per il ritardo’ di Reed ‘ma stavamo solo accordando’ che si capisce che aria tira). Il disco non è un’istantanea del musicista Reed quanto appunto un ritratto a tutto tondo “senza testimoni né amanti” dell’uomo dietro di esso. Le conversazioni col pubblico appaiono per quello che sono: materiale completamente umorale che spazia con la disinvoltura tipica del freethinking del nostro dalla politica all’aneddotica fino alle gag e agli insulti. Le giaculatorie verbali non riempiono soltanto i vuoti tra le canzoni, ma irrompono all’interno di esse, trasfigurano i brani, li allungano li deformano per poi tornare a comporli in un’immagine complessiva dell’intera opera di Reed: un canto metropolitano ininterrotto che inciampa in qualsiasi cosa le strade di New York portino alla sua attenzione (detriti d’esistenza cui solo chi ci ha vissuto e sofferto può conferire dignità di espressione) e che non fa differenze tra blues, rock, questioni razziali, contraddizioni sociali, folk e poesia. Sul piano strettamente musicale meritano un’attenzione particolare l’ancora più swingante I Wanna Be Black, una visionaria versione ‘elettrizzata’ e ‘spiritualizzata’ dell’intramontabile classico Pale Blue Eyes, un blues irriconoscibile intitolato Waiting for My Man sul il primo disco. Nel secondo è superfluo scegliere. Se decidete di possedere un solo live di Lou Reed impossibile non optare per questo (e a chi non è ossessionato dall’up-to-date tecnologico oltranzista consigliamo il doppio vinile che suona addirittura meglio dell’edizione cd). Recentemente ristampato con un saggio di David Fricke ad arricchire la nuova edizione, continuano purtroppo a latitare le numerose tracce tagliate dalla registrazione originale. Dato il livello dell’opera, continuiamo a sperare di poterle ascoltare nelle future re-releases.
Mauro Carassai

The Bells (1979)

Registrato in Germania con la partecipazione di Don Cherry, “The Bells” finì per caratterizzarsi come una sorta di sperimentazione rock multilivello, non solo per la tecnica tedesca di registrazione biacustica ma anche per le sue sonorità sul filo del rasoio tra rock, rhythm’n’ blues e jazz sghembo e disarticolato. Per di più, alla luce dell’ultima opera “The Raven”, la canzone in chiusura che diede il titolo all’album in questione si configura come un inquietante sinistro presagio per il suo mix di lyrics tratte dall’omonima poesia di Poe (The Bells) profuse da Reed in maniera improvvisata nel flusso sonoro di una rilettura musicale di Cherry del brano Lonely Woman di Ornette Coleman (che sarebbe poi appunto finito anche lui nell’ultimo disco ispirato all’opera di Poe). L’album, pur se composto e registrato in breve tempo, è di ottimo livello e riesce a combinare acquerelli seventies su tele synth come quelli di Disco Mystic, sonorità rubate al primissimo Bowie come la contagiosa With You o la confidenziale City Lights, frenesia electric swing come quella di Looking for Love. Definito da Lester Bangs come “l’unica e autentica fusione tra jazz e rock mai incisa dai tempi di On The Corner di Miles Davis” all’epoca della sua uscita, il disco sorprende per coesione e varietà certosinamente equilibrate. I Want to Boogie with You (oltre al miracolo sperimentale della già citata tile track) è forse il brano sintesi di tutte le istanze poc’anzi descritte con la sua magnifica miscela di strumenti a fiato, struttura minimal rock bitonale, tradizionale cantato simil-parlato Reediano e arabescate divagazioni strumentali. Sicuramente uno dei dischi dedicati soprattutto ai potenziali futuri ‘conosseurs’ del nostro.
Mauro Carassai

Growing Up in Public (1980)

Reed inaugura il decennio degli ottanta con un disco unanimamente considerato ancor oggi insicuro e ‘leggero’ come “Growing Up in Public”, dimostrazione forse evidente di una volontà neanche tanto nascosta di lasciarsi alle spalle lo status di “rocker maledetto” che aveva caratterizzato il decennio precedente. Un Reed in abbigliamento casual e sguardo dimesso campeggia in copertina, cronaca iconografica di una mediocrità annunciata, sancita purtroppo dalle scarse vendite che seguirono. Oggi l’opinione che il disco rappresentasse un segno tangibile di un declino incipiente, va indubbiamente rivista. E a ben guardare nell’album erano già presenti, anche se in forma non compiutamente elaborata, tutti gli elementi che avremmo trovato di lì a qualche anno nelle cose migliori del Reed solista: scrittura impeccabile di lyrics e musiche unite in una monogamia unica e irripetibile come in How Do You Speak to an Angel (tra i migliori brani di Lou nella lista di quelli ingiustamente sottovalutati), volontà di confessione emozionale e leggerezza scherzosa nel rovesciarla sull’ascoltatore in The Power of Positive Drinking, commistione tra folk bianco e black roots in Teach the Gifted Children, rifferama ‘stradaiolo’ ammiccante ed assassino come in Keep Away, melodica dolcezza riflessiva come in Think It Over. Gli episodi deboli ci sono (vedi la title track, So Alone oppure Smiles), ma “Growing Up in Public” è l’inizio di quella predilezione per i temi legati ad una sfera personale intrisa di quotidianità che, grazie all’innata predisposizione letteraria del nostro, verranno inevitabilmente proiettati in una dimensione universalizzante nei grandi lavori successivi. E proprio in quanto tale sarebbe un errore gravissimo ignorarlo o considerarlo soltanto come un episodio minore.
Mauro Carassai

The Blue Mask (1982)

Come si è detto poc’anzi, sembra un forte desiderio di normalità quello che attanaglia Lou Reed per tutti gli anni ’80 ed egli lo coltiverà con risultati di segno opposto. Le conseguenze negative saranno album mediocremente ‘normali’ (tanto quanto creativamente anormali per gli standard del nostro) come “New Sensations” e “Mistrial”. Quelle positive però hanno nomi indimenticabili: “The Blue Mask”, “Legendary Hearts” e poi, ovviamente, “New York”. “The Blue Mask” è l’album del grande ritorno per Lou Reed. Oltre a tornare a incidere per la RCA, il disco segna innanzitutto il ritorno di uno strumento connaturato al concetto stesso di rockstar: la chitarra elettrica. Grazie all’incontro con Robert Quine (in passato nei Voivoids insieme a Richard Hell nell’album “Blank Generation”), Lou riprende a suonarla con vigore e rinnovata fiducia in sé stesso. La sua volontà di risolvere i suoi problemi con l’alcol gli ispireranno brani memorabili come il folk rock elettrico di Underneath the Bottle o l’evocativa e bellissima Waves of Fear. Il contatto medianico con lo spettro di Delmore Schwartz (poeta e amico la cui opera letteraria tanto aveva influenzato il giovane Lou) nel suo rifugio solitario di Blairstown gli fornirà il materiale per la sussurrata My House iniziale. Ultimo, ma forse più importante elemento, sarà il matrimonio con quella che sarà la sua compagna per tutti gli anni ottanta: Sylvia Morales. Un’autentico atto d’amore in musica (in tutti i sensi) è infatti la finale Heavenly Arms a lei dedicata che, mediante melodie vocali mozzafiato del nostro e lyrics intense ed appassionate, si candida come una delle più belle canzoni (d’amore) in assoluto scritte da Reed. Fuor di dubbio tra l’altro il fatto che una vera palingenesi individuale ed emozionale sia avvenuta se un uomo dall’intricato passato sentimentale e relazionale quale quello di Lou si sente a suo agio con lyrics come “Only a woman can love a man”. Per l’album in questione non valgono i mezzi termini: capolavoro.
Mauro Carassai

Legendary Hearts (1983)

Fratellino minore del più fortunato precedente “The Blue Mask” che aveva segnato la ‘rinascita’ creativa (quella legata al songwriting ma soprattutto quella chitarristica) di Lou, “Legendary Hearts” è un album per molti versi più classicamente e compostamente Reed-iano. Ancora con Robert Quine saldamente al suo fianco, alter ego musicale quale Reed non aveva più avuto dai tempi di Cale nei Velvet, Lou riesce a regalarci perle come la splendida track omonima che sembra sconfessare gli slanci appena precedenti sintetizzando il ‘Lou pensiero’ sulle relazioni umane nei soli due versi “I’m good for just a kiss, not legendary loves”. Sfilano nell’album in forma di sferzate rock’n’roll o di pregevoli rock ballads alcuni sequel di discorsi già iniziati nell’album precedente come Don’t Talk to Me About Work o The Last Shot sui recenti rapporti con l’alcol e la magnifica e avvolgente Betrayed. I brani sono tutti di buon livello ma purtroppo l’album risente del ritorno di alcune costanti che sembravano dimenticate. Come non succedeva dai tempi dei Velvet Underground, Reed poco prima dell’uscita dell’album e senza informare nessun altro dei musicisti entra in studio e remixa l’intero disco per far risaltare la sua voce e la sua chitarra a sfavore di quella di Quine, imprimendo involontariamente ai brani uno squilibrio sonoro in termini di produzione avvertibile a tutt’oggi. Come ebbe a dire ai tempi Robert Palmer: “Dopo il grande passo avanti con Quine su The Blue Mask, sembra che Lou sia diventato un po’ più incerto. E quando si sente insicuro, comincia a voler detenere il controllo della situazione”.
Mauro Carassai

Live in Italy (1984)

E’ il periodo di una forma fisica smagliante per Lou e di una vivacità musicale altrettanto invidiabile. Alla forza morale e materiale del chitarrista Robert Quine e del bassista Fernando Saunders (già reclutato dai tempi di “The Blue Mask”) si aggiunge quella di Fred Maher (in passato con i Material) a completare la formazione. Reed può così firmare insieme a un ensemble live di tutto rispetto, un documento sonoro scarno ed essenziale. Dimenticati i funesti disordini sperimentati nel nostro paese nel tour del 74, “Live in Italy “si configura come la riscossa pura e semplice della musica con la M maiuscola. Vi viene riproposto e rivisitato il più bel repertorio Reediano (in una perfetta mescolanza di inni Velvettiani e indimenticabili composizioni del periodo solista) con un’energia rock che da un lato ripulisce parzialmente gli arabeschi dissonanti di I’m Waiting for my Man e Sister Ray e dall’altro corrobora e dà maggior spessore e struttura ai preziosismi di brani come Sally Can’t Dance, drena l’epicità di canzoni come Waves of Fear e rinvigorisce la languidezza melodica di composizioni (neanche tanto minori) come Betrayed. Perfettamente legittimo considerarlo come il live di una raggiunta maturità artistica sobria e composta rispetto agli eccessi del passato (e magari non certo scevro anche di una certa monotonia di fondo) ma anche sicuramente come il promettente inizio del salubre futuro creativo che ci avrebbe portato pochi anni più tardi album come “New York” o “Set the Twilight Reeling”.
Mauro Carassai

New Sensations (1984)

Spacciato come l’anello conclusivo di una ipotetica trilogia dedicata al riesame dei rapporti di coppia inaugurato con “The Blue Mask” e poi proseguito con “Legendary Hearts”, “New Sensation” (nonostante le buone vendite e postazioni in classifica che non si vedevano dai tempi di “Coney Island Baby”) può essere invece tranquillamente considerato un album minore. Spesso si attribuisce la scarsa incisività dell’album alla fine del sodalizio tra Lou e Quine o ad una produzione raffazzonata e superficiale, ma il reale punto debole del disco sta nella presa di coscienza d Lou circa il nuovo ruolo che si trovava ad occupare nel pieno della ‘Reagannomics’. L’interesse per la politica e il suo impegno in numerose questioni extramusicali rendeva evidente l’esigenza di ‘parlare al grande pubblico’ riscontrabile in numerose scadute commerciali del nostro (vedi lo smaccato piglio mainstream di brani come Endlessly Jealous o l’omonima New Sensations, l’inconcludenza di My Red Joystick, l’imbarazzante presenza di composizioni senza capo né coda come What Becomes a Legend Most o improponibili reggae come High in the City). Il tutto sembra ridursi ad uno scialbo rock melodico del tutto ordinario e nonostante la presenza di brani tutto sommato gradevoli nella loro spensieratezza pop come I Love You, Suzanne o nelle loro pallide rievocazioni degli splendori passati come Fly Into the Sun, il gioco mediatico di Reed illustrato in copertina purtroppo non riesce.
Mauro Carassai

Mistrial (1986)

Appendice del tutto trascurabile della deriva pop che Reed aveva inaugurato con “New Sensations”, segna la fine di un altro periodo della carriera di Reed (oltre a concludere dal punto di vista contrattuale il secondo ‘periodo RCA’ del nostro). Si apre una fase di ricerca tanto prodiga di spunti quanto inconcludente nel portarli verso qualcosa di compiuto dal punto di vista della propria evoluzione artistica. Non bisogna infatti dimenticare che sono gli anni in cui Reed presta la sua opera alle soundtracks di films come Perfect o White Nights, fa coppia con Sam Moore per riproporre il classico Soul Man, si getta nell’impegno sociale partecipando all’Homeless Children Benefit, all’iniziativa anti-aparthedi di Little Steven o ai concerti di Amnesty International. Il disco risente pesantemente di questa frenetica iperattività responsabile di accostamenti tra l’heavy sound della title track e la spiazzante soft-disco di No Money Down, tra melense ballads come Don’t Hurt a Woman e ‘slappate’ di basso funky come quelle di Original Wrapper. Probabilmente il punto più basso della carriera del musicista americano, l’album si corredò anche di alcuni strascichi polemici legati alla presunta violenza del videclip di No Money Down (che metteva in scena un robot sosia di Reed che si autodistrugge il volto) che venne escluso dalla playlist di MTV.
Mauro Carassai

New York (1989)

Una chitarra appena collegata ad un amplificatore valvolare, un mood variabile tra il notturno e lo sdegnato, la batteria sorda e una voce che finalmente ritrova il giusto timbro. Dal punto di vista stilistico New York segna il ritorno di Reed ai vertici del rock’n’roll mondiale. Senza tema di smentita il suo miglior disco dai tempi di Trasformer. Il punto focale del lavoro è rappresentato dalle amare riflessioni sulla sua amata-odiata città, che quindi si tramutano in riflessioni universali. E’ il disco più politico di Lou che prende le distanze dal reaganismo spietato, allora(?) imperante, e narra le tragedie quotidiane di ispanici, disoccupati, malati di aids e reietti vari. A differenza del primo seminale VU&N;, dove Reed raccontava con innegabile compiacimento le frattaglie urbane che abitavano le notti alcoliche e acide della sua città, adesso lo sguardo è feroce, disincantato e indignato. In Good evening Mr Waldheim canta Remember those civil right workers buried in the ground, parole che starebbero bene in bocca a un novello Woody Guthrye. Lo sfogo di Strawman è quello di uno street fighting man che vuole mutare l’esistente e sa che ha voce per farlo.
Il disco è poi un capolavoro di equilibrio: le chitarre suonano meravigliosamente bene, frutto di una ricerca decennale su amplificatori, valvole e pick-up. Momenti swingati si mescolano a poesia urbana, il talkin’ da strada incontra il funky discreto della possente ritmica, la voce ruggisce. Uno dei migliori dischi del decennio. Capolavoro assoluto.
Ilario Galati

Songs for Drella (1990)

Licenziato nel 1990 come omaggio postumo della coppia Reed-Cale all’inventore della Pop Art (il Drella del titolo vede Andy Warhol come una improbabile sintesi tra Dracula e Cinderella), la sua genesi data invece molto addietro nella carriera di Reed e precisamente intorno al 1975 quando, in seguito alla spedizione da parte di Warhol di alcune bozze del libro “La Filosofia di Andy Warhol”, Lou decise di scriverci alcune canzoni per un futuro spettacolo da rappresentare a Broadway che però dovette nell’immediato essere accantonato. Nella sorpresa generale Reed lo porterà invece sul palco del St Ann’s di Brooklyn quale tributo musicale ad una delle figure artistiche e umane più importanti della sua vita. Finito di comporre e suonato insieme al ritrovato compagno John Cale, l’album è una sorta di concept poliedrico in grado di regalarci vere e proprie perle di poesia in musica come la splendida Open House col suo canto bisbigliante indirizzato da Lou direttamente al cuore di chi ascolta. Di stordente respiro melodico la successiva Style It Takes cantata invece da Cale come la disquisizione artistica di Trouble with Classicist o l’inquietante Faces and Names e molte altre. Non mancano brani autenticamente rock (principalmente cantati da Reed) come Work o Starlight ma le atmosfere del disco sono sensibilmente quanto poeticamente concettuali e la rediviva viola di Cale o il piano suonano particolarmente appropriati. Se è vero che resta impossibile considerarlo semplicemente come un album della coppia Reed-Cale (anche per la presenza di readings come A Dream), “Songs for Drella” stupisce per l’evidente coesione tra i due musicisti e per la presenza di perfetti brani a-la-Reed come It Wasn’t Me. Un disco bellissimo che in ogni caso nella carriera del nostro fa indubbiamente storia a sé.
Mauro Carassai

Magic and loss (1992)

Sorprende il Lou Reed riflessivo della sua prima prova del decennio. Un disco sofferto e doloroso ma riuscito solo in parte. Contraddittorio e forse eccessivamente verboso, Magic and Loss è però capace di narrare senza alcun pudore la morte. Quella fisica soprattutto.
Doc e Rita se ne vanno, mangiati dal cancro nel giro di pochi mesi. Ne nascono riflessioni dolorosamente lucide. Come quelle cantate in Sword of Damocles: le radiazioni non fanno discriminazioni tra le cellule sane e quelle malate, ti curano ma al tempo ti divorano. Altra sorprendente canzone è Harry’s Circumcision che suggerisce senza mezzi termini l’unica via di fuga: il suicidio. Dal punto di vista musicale non poche sono le novità: la riabilitazione del grande Little Jimmy Scott che canta la jazzata Power and Glory, l’hit What’s Good per Wenders, la splendida Cremation, parole sconvolgenti su una musica dolce ed eterea.
Ilario Galati

Set the twilight reeling (1996)

Disco di transizione che contiene alcuni spunti buoni ed episodi francamente inutili. Partiamo dalle cose positive: la conclusiva Riptide è tra le cose migliori dell’ultimo Reed. Il furore sonico delle chitarre incontra ancora la voce spezzata, limitata, ma terribilmente efficace del nostro. Alla fine, l’energia liberata dalla canzone scuote le membra e si assesta da qualche parte nella zona pubica. Sexy. Una risposta a chi crede che il r’n’r sia solo una cosa per ragazzini. Il resto è puro esercizio. Un paio di ottime ballate, tra le quali l’ispirata Trade In, una vibrante tirata d’orecchio alla destra repubblicana, Sex with your parents, un irritante r’n’r old-style per fare un occhietto alle radio commerciali, accenti soul e funky. Dignitoso.
Ilario Galati

Perfect night: Live in London (1998)

La registrazione di un concerto a Londra, per il Meltdown festival, è l’occasione, l’ennesima, per reinventare se stesso e la propria storia artistica.
La strumentazione acustica, nelle intenzioni e parole dello stesso Reed rende al meglio l’impatto sonoro grazie a delle tecniche finalmente capaci e adatte allo scopo.
I’ll be your mirror è un irriconoscibile sussurro, come pure Perfect day, spezzettata e passata in slow motion.
Lo strazio di the bed, lo straniato effetto dell’indimenticabile Vicious, chiaroscuri che s’impossessano dell’originaria anima rock delle canzoni.
L’intensità di Talking book sfocia in una specie di coro confuso, Coney island baby è coinvolgente, New sensation si dimena sul ritmo.
Sex with your parents,dall’album di studio set the twilight… si mostra per quello che è: una durissima invettiva politica senza peli sulla lingua, un attimo prima che Dirty boulevard ci riporti nei vecchi,consueti scenari urbani.
L’appiattimento dei toni sull’acustico rende ingeneroso il confronto tra cose vecchie e nuove, anche se non è certo l’onestà a difettare nei contenuti delle canzoni piu’ recenti.
Nel complesso un live trascurabile, penalizzato da un repertorio troppo limitato al presente e condizionato da evidenti manie d’egocentrismo.
Alfonso Tramontano Guerritore

Ecstasy (2000)

Non sono in pochi ad affermare che molte delle cose migliori di Reed appartengono al periodo Sire o, per meglio dire, quello seguito alla pubblicazione di “New York” (album che aveva prepotentemente riportato alla ribalta un mix insuperabile di incisività della musica e verve polemica dei testi). Insieme a “Set the Twilight Reeling”, “Ecstasy” fornisce buonissime pezze d’appoggio a questa tesi per le sonorità electric rock’n’roll ridotte all’osso di Paranoia Key of E in apertura, per l’irruenza in crescendo di Mystic Child, per la suadente dolcezza colloquiale di Modern Dance o Turning Time Around e infine per la sintesi di suggestività visiva e poesia folk di Baton Rouge. Nel disco trova spazio anche qualche gradevole reminiscenza Velvettiana mediante le interminabili dissonanze/consonanze ossessive di Like a Possum con aggiunta di voce teatrante da parte di Reed e sparute percussioni tribali. L’album contiene però a onor del vero anche diversi ripiegamenti autoindulgenti forse frutto di una rilassata e consapevole maturità (Lou Reed è uno dei pochi casi musicali per i quali parlare di vecchiaia o stanchezza risulterebbe davvero fuori luogo) come la dinoccolata Mad, il tirato rock nell’ennesima salsa ‘già sentita’ di Future Farmers of America e la tutto sommato dispersiva Rock Minuet (di solito invece acclamata appunto come perfetto esempio di ‘rock per adulti’). Salva queste cadute di tono la perfetta ‘coda’ di Big Sky con le sue aperture strumentali elegiache e le accattivanti progressioni melodico vocali degne del miglior Lou del passato. L’album ripropone ancora una volta l’incontro/scontro nella carriera di Reed tra letterarietà e rock in un rapporto sbilanciato verso quest’ultimo. Ci penserà “The Raven” a ristabilire equilibrio spostandosi decisamente a favore della prima.
Mauro Carassai

American Poet (2001)

Recentissimo live pubblicato nel 2001 (ma contenente la registrazione della performance radiofonica che Lou Reed tenne a Hempstead, New York il 26 dicembre del 1972 – già peraltro semidisponibile nei numerosi bootleg ad essa dedicati) che resterebbe operazione apparentemente superflua se non per due ragioni che lo rendono invece legittimo e doveroso per ogni vero Lou Reed fan. Innanzitutto per l’intervista ivi contenuta che tocca molti dei punti nevralgici del travagliato trapasso dalla dissoluzione dei Velvet al successo del ‘trasformista’ che tutti conosciamo. La seconda ragione sta nel fatto che, molto meglio di quanto avevano fatto “Rock’n’Roll Animal” e “Lou Reed Live”, il set (interrotto dall’intervista centrale in due atti davvero emozionanti) riesce ad amalgamare in maniera superlativamente omogenea il vecchio materiale Velevettiano e l’allora nuovo materiale solista. Non si avverte soluzione di continuità tra la versione ballad dolceamara di I’m Waiting for My Man, l’avvolgente electric folk di Satellite of Love, la cantilenante Walk on the Wild Side mondata dei preziosismi degli strumenti a fiato della versione su disco o le tinte dimesse rese in chiave rock di Berlin. Stesso discorso per l’irruenza chitarristica (mai sconfinante nel rumorismo) di Walk it Take ItI’m So Free o quella di Rock’n’Roll. Tutte le migliori songs scritte da Reed prima del ‘72 appaiono qui per la prima volta come un unicum o in ogni caso come dovrebbero apparire sempre: senza tempo.
Mauro Carassai

Manfredi

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