L’Isola che non c’era, un viaggio meditativo di Leonardo Bonetti

L’isola che non c’era (Il ramo e la foglia edizioni, 2021) è un romanzo che ha i piedi ben saldi nel nostro presente. Un racconto avvincente ed enigmatico che vede come protagonista Leo, un ragazzo che ha la possibilità di approdare su un’isola, per l’appunto l’isola che non c’era del titolo, che può offrire nuove possibilità agli uomini. Si può ricominciare da zero, lontano da tutti, per fondare una nuova società con nuove regole. Ma l’isola sembra nascondere qualcosa di molto antico, profondo e, attraverso l’incontro con gli altri abitanti, Leo viene trasportato in un percorso oscuro, senza apparente via d’uscita. Tanti sono i punti di forza di questo bel romanzo e, tra questi, una lingua colta ma popolare che rende il libro accattivante. La casa editrice indipendente “Il ramo e la foglia edizioni” è stata fondata da Roberto Maggiani e Giuliano Brenna ed è sicuramente un nuovo modo di fare editoria in cui non ci sono barriere tra editore e scrittore ma un rapporto sinergico e produttivo.

Incuriosito da tutto ciò, ho fatto qualche domanda a Bonetti in modo da poter offrire al lettore una bussola per orientarsi tra le righe di questo romanzo.

  • Il protagonista di questo romanzo è Leo, che approda su un’isola misteriosa che potrebbe offrire nuove possibilità di vita agli uomini. La questione che tu poni sul tavolo è chiaramente universale ma, secondo te, oggi, concretamente, quante possibilità di un’isola del genere abbiamo?

Quest’isola, come suggerisce il libro, esiste davvero, non è un sogno ma, semmai, la reale estensione del nostro desiderio dentro l’orizzonte del possibile. Questo perché una rivoluzione è sempre in atto e avviene sotto i nostri occhi senza che ce ne rendiamo conto. Non è solo una rivoluzione astronomica, ma esistenziale. Una rivoluzione che si compie passo passo e che, tornando al punto di partenza, ritrova gli stessi luoghi profondamente cambiati. Li si riconosce, è vero, ma non sono più gli stessi. Perché quest’isola è un po’ come l’opera di una vita. Il viaggio che facciamo partendo alla sua volta sarà la misura di quanto, restando fedeli a noi stessi, abbiamo trasformato il mondo dentro e fuori di noi. L’isola è una rivoluzione avvenuta senza che ce ne potessimo accorgere, il processo di una scrittura e la nascita di un mondo che non c’era.

  • Una sera Leo va dal Dottor Elwin e gli chiede lumi sul governo dell’isola. Nota che ha una valigia di cuoio, piantata in mezzo al corridoio. Al che Leo gli chiede se è in partenza ma Elwin, forse mentendo, risponde «No, certo. Del resto non sarebbe comprensibile: questo è un posto in cui si resta». E, ancora, insiste, dicendogli che occorre sperimentare a fondo l’idea e l’isola. Quanto in profondità sei andato per sperimentare le idee che animano questo romanzo?

In realtà questo romanzo è stato concepito a partire da un’altra isola della mia scrittura. La prima stesura, infatti, è del 2012, l’anno in cui pubblicai un libricino di meditazioni in prosa poetica: A libro chiuso. In quel libro, se devo essere sincero, è nascosto il cuore de L’isola che non c’era. Potrei persino affermare che il mio ultimo romanzo ne sia la diretta discendenza, che da quel bozzolo di poetiche abbia avuto origine l’aspetto più propriamente filosofico di questo libro. Ecco dunque che l’idea, nella sua valenza di filosofia o poetica che dir si voglia, incarna pienamente la forma dell’isola. E, in questo rapporto, viene prima evocata e poi incisa definitivamente dalla sua scrittura.
Ma i chiarimenti chiesti da Leo al Dottore vertono sul governo dell’isola e, cioè, sul suo potere. È questo il nodo più difficile da sciogliere, sia del libro che di ogni nuovo progetto di società. E questo perché è proprio nel potere, più di ogni altro aspetto dell’umano, che si nasconde ciò che l’umano offende in nome dell’utile, dell’interesse e del dominio. È in questa zona grigia che l’isola si gioca davvero il suo futuro.

  • Sono tante le immagini che offri al lettore e incredibili le suggestioni che, con uno stile ammaliante, riesci a creare. Come metti in moto il tuo processo creativo?

La mia scrittura segue, per quanto ne possa avere reale cognizione, un andamento materno, un movimento oscillatorio e morbido, diviso in due momenti: il venire e il tornare. Un’orchestrazione (così potrei definirla) frutto di un’esperienza della parola essenzialmente musicale, ritmica e melodica. La mia pagina somiglia più a una partitura che a una costruzione sintattica, e l’aggettivazione e le strutture nominali sono sezioni ritmiche e armoniche atte a dividere e costruire l’insieme. Un lavoro dunque che procede setacciando il grosso dell’ispirazione per arrivare gradualmente, dopo una lunga sedimentazione, al testo definitivo. Non è un caso, infatti, che la lavorazione dell’Isola che non c’era sia durata nove anni.

  • A me L’isola che non c’era è sembrato un bel viaggio spirituale all’interno di una dimensione, probabilmente, sconosciuta a molti occidentali. Sbaglio se ti dico che ho ritrovato l’essenza di alcuni testi epici indiani come la Bhagavad Gita?

Credo che L’isola che non c’era sia un’opera profondamente occidentale. Ma con questo non nego influssi provenienti da altri mondi e altre culture, soprattutto quelle che tanta parte hanno avuto nella formazione del concetto stesso di Occidente. Se dunque venature di carattere orientale sono presenti nel libro, non credo però esista un rapporto diretto con testi specifici di quella tradizione. D’altronde istanze simili attraversavano la letteratura europea sin dall’età tardo antica e medievale. Quell’essenza di cui parli è antica, insomma, e filtrata da tutta la tradizione occidentale.

  • Quali sono i tuoi autori di riferimento?

Posso fare alcuni nomi per delineare un approssimativo e ipotetico albero genealogico, per così dire. Tra gli italiani metterei Landolfi, Gadda, D’Arrigo, Ortese. Tra gli stranieri Tolstoj, Cechov, Sebald, Bernhard. Ma a restringere il campo, per la mia Isola che non c’era, farei solo due nomi: Anna Maria Ortese e Winfried Georg Sebald.

  • Quanto cinema c’è nella tua scrittura?

Molto, credo. Le influenze più importanti sono quelle della linea poetica della visione, che ha come capostipiti i russi Tarkovskij, Sokurov e Michalkov. Quindi, tra le esperienze più recenti, l’opera di registi dell’est come Béla Tarr e Jan Svankmajer. Ma non posso certo ignorare, almeno per quanto riguarda l’isola, il contributo determinante della cinematografia italiana con Stromboli, terra di Dio di Rossellini, L’avventura di Antonioni e L’invenzione di Morel di Emidio Greco.
Più in generale credo di poter dire che la mia è una scrittura profondamente visiva pur mantenendo tutte le caratteristiche di sedimentazione letteraria proprie della cultura nazionale. È una scrittura “italiana”, insomma, ma profondamente corroborata da influenze musicali e cinematografiche di quella contemporaneità che definisco, e non sempre generosamente, postmoderno; un tempo che vivo con spirito critico come solo un moderno saprebbe fare.

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Una risposta

  1. Roberto Maggiani ha detto:

    Molte grazie a “L’armadillo furioso” e a Francesco Bove per questa bella intervista a Leonardo Bonetti.

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