Lady Vendetta: recensione e analisi del film di Park Chan-wook

Sedotto da Vertigo, capolavoro del maestro di tutti Alfred Hitchcock, animato da un furore iconoclasta sapientemente stemperato da un’ironia da cinefilo di razza, arrabbiato quanto basta da farlo somigliare a Peckinpah e trashista raffinatissimo al punto da suscitare l’amichevole invidia di Quentin Tarantino, suo estimatore accanito: questo è Park Chan-wook, regista sudcoreano divenuto in breve tempo cineasta di culto nel deserto stilistico corrente. La sua Trilogia della Vendetta è un vero e proprio manifesto di poetica, con un retrogusto filosofico ed una incisività figurativa che s’impone immediatamente persino allo sguardo dello spettatore più distratto. Dopo i precedenti, magnifici capitoli di Mr. Vendetta e Old Boy (storie autonome, tesissime e violente di rese dei conti private), è la volta di Lady Vendetta, un thriller sociale girato come un noir moderno.
Protagonista di questa terza storia (im)morale è la bravissima – bellissima attrice Lee Young-ae, reduce in patria di fiction melò che l’hanno resa telediva acclamatissima, qui nei panni di Geum-ja, una bad girl dotata di un fascino irresistibile, coinvolta suo malgrado in un fattaccio atroce che la conduce in galera per tredici anni.

Come la Thurman di Kill Bill la nostra eroina sopporta stoicamente la tortura di una ingiusta condanna, diviene detenuta modello ma, com’è ovvio, non dimentica. Appena uscita si trasforma così in una pasticciera- killer, usufruendo della tenera complicità di un certo Mr. Chang (l’attore è Oh Dal-su, quello che in Old Boy subisce la tortura dei denti). C’è dell’umano in questa Pentesilea assetata di sangue, che assesta i suoi colpi con implacabile grazia. C’è l’ombra della grande tradizione dei vendicatori del western classico e di quello crepuscolare, l’ombra di Callaghan e dei samurai di kurosawiana memoria.
Park Chan-wook dirige le scene d’azione con la grazia di un Busby Berkeley del thriller, predilige la precisione e la geometria ma non disdegna l’utilizzo dell’improvvisazione alla maniera della Nouvelle Vague per i suoi bravissimi, concentratissimi interpreti. Della serie “B”, il regista recupera l’ironia e il gusto per l’eccesso straniante: qua e là affiora la temperatura di un sano moralismo d’altri tempi e la misura di una pietas a tratti addirittura commovente.
Insomma, citazioni a parte, ci troviamo di fronte ad un gran film che allude, senza sottolineature eccessive, alla funzione stessa del cinema come medium narrativo in grado di raffigurare e trasfigurare la società del proprio tempo, e come strumento principe delle rimanenti possibilità di catarsi. Si tratta di cinema profondamente umano, a dispetto della disumanità di cui racconta: cinema appassionante ed intenso che ci tiene a sondare i lati oscuri della realtà (non usando un linguaggio realistico) e quelli della psiche individuale, esibendo le tante maschere che ci fanno persone dalle identità perdute. Ma che razza di realtà è la nostra che ci spinge a coltivare le pulsioni primarie, trasformandosi in selvaggi sanguinari, come unica via per ritrovare se stessi? A quest’ultimo interrogativo Chan-wook non risponde, lasciando al suo pubblico la possibilità di dare un giudizio, chissà quanto definitivo.

Articolo di Francesco Puma (reVision)

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