La visione e lo sguardo. Janela da alma

janela da alma

A dieci anni un ramo di albero colpisce il filosofo Evgen Bavcar sul volto, un incidente che gli costa l’occhio destro, un dazio pagato alla sfortuna. Dopo un anno perde anche l’occhio sinistro, che gli permetteva di distinguere ancora i corpi e la luce. Gioca con una mina, che confonde per un oggetto metallico e – in un attimo – perde completamente la vista. Studia a Parigi, si laurea in filosofia, segue un dottorato scrivendo una tesi sull’estetica di Adorno e Bloch ma è la sua geniale intuizione a renderlo famoso. Bavcar scatta fotografie, con il suo “terzo occhio”, come afferma lui. Un esperimento sullo sguardo incredibile, fortissimo, che va oltre i confini della fotografia, una possibilità concreta di scrivere le proprie immagini interiori avvalendosi dell’Altro. Ma che cosa significa “vedere”?

João Jardim e Walter Carvalho, nel documentario Janela da alma, cercano di rispondere a quest’interrogativo rivolgendosi ad artisti, intellettuali e persone comuni e tracciando un percorso ambizioso e affascinante. I diciannove intervistati, tra cui Oliver Sacks e José Saramago, decostruiscono la nozione di “visione” e fanno emergere tutti i dissidi e le contraddizioni che animano il sentimento del “vedere”. Si può vedere anche da ciechi. Arnaldo Godoy, assessore di Belo Horizonte, dimostra che è possibile, attraverso gli altri sensi, riconoscere le strade della propria città. Evgen Bavcar, come si è già visto, scatta bellissime fotografie con gli occhi dell’anima e della mente. Tutto ciò che vediamo appartiene al campo del visibile ma riuscire a vedere ci dà una marcia in più? In realtà, no.  Ci manca l’invisibile, quel che si nasconde tra le pieghe e che va oltre le facoltà dello sguardo. Non siamo più capaci di immaginare perché i nostri occhi sono obnubilati da una quantità di immagini spropositata e, quindi, ci fermiamo alla superficie esteriore delle cose. Tutto questo si riflette anche nelle relazioni quotidiane.

Nell’incontro con l’Altro, gli occhi non cercano altri occhi ma lo sguardo e, spesso, se lo si trova, è difficile da sostenere. Trovarsi faccia a faccia con l’Altro non significa essere di fronte l’Altro. Lo sguardo apre uno spazio dove trascinarsi, reinventarsi e non è detto che abbia bisogno sempre di luce. Derrida apre le sue “Memorie di un cieco” citando Diderot. «Scrivo senza vedere. Sono venuto, volevo baciarvi la mano. È la prima volta che scrivo nelle tenebre senza sapere se formo dei caratteri. Dove nulla ci sarà leggete che vi amo». Un testo, quello di Derrida, incentrato sulla presenza e sull’assenza, sull’oscurità, interferenza della luce, che dà e toglie il Sé. Gli esperimenti di scrittura dei grandi ciechi, come Joyce, Borges, Milton, Omero, dimostrano che è necessario non vedere per poter vedere veramente.  Oggi, forse, questo è il grande problema della letteratura mondiale. João Jardim e Walter Carvalho, alla fine, riescono a dimostrare, pur passando rischiosamente da un punto a quello opposto, che visibile ed invisibile sono compenetrati l’uno nell’altro, si appartengono. Siamo noi a scegliere cosa e come vedere, talvolta anche per necessità, ma la vera rivoluzione è rendersi ciechi per poter sconfinare e vivere veramente.

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