La stanza del figlio: recensione del film di Nanni Moretti

Durante una seduta con una paziente ossessionata dalle date, lo psicologo Giovanni ha una tentazione: alzarsi, accompagnare la donna fuori dallo studio, mostrarle tutta la sua collezione di scarpe sportive e invitarla a fare una corsa con lui. È questo, psicanaliticamente, un classico “affiorare del rimosso”: una scena che torna dal passato, e precisamente dall’ossessione calzaturiera del protagonista di Bianca. Ma il Moretti del 2001 tiene a distanziarsi dal surrealismo di un simile sketch, e lo ammette nel discorso solo come virtualità, come atto mancato.
Tale scarto non è l’unico esempio. Con La Stanza Del Figlio, Moretti opera il rigetto, la negazione di molto suo cinema: le istituzioni (gli “universi”) che erano state lo scenario centrale dei suoi film più recenti vengono tutte sottilmente o violentemente criticate. La Scuola (Bianca) è solo un covo di antipatie e aggressività mascherate, dove ogni impegno pedagogico sembra ridursi ad un’indagine poliziesca: chi ha rubato l’ammonite? La Chiesa (La Messa É Finita) non può dare alcuna risposta e sollievo al dramma della morte, se non irritanti paragoni: “Il padrone di casa non sa quando verranno i ladri”. Lo Sport (Palombella Rossa) è pretesto di divisione anziché di unione, di morte anziché di vita: la madre e la sorella di Andrea seguono distrattamente la sua partita a tennis; proprio per questo, forse, lo stesso Andrea perde volutamente; sua sorella Chiara fa scoppiare una rissa durante una partita di basket; ed è un’immersione subacquea ad uccidere Andrea. La Paternità (Aprile) è il ruolo delle incomprensioni, del non detto: il furto inconfessato, la “relazione” segreta con una ragazza, l’Io di Andrea conteso tra il padre e i propri amici. E sparisce infine l’alter ego Michele Apicella, spariscono Roma, la Vespa, la Politica, il Cinema, sparisce Nanni Moretti con la sua cronaca vera (Caro Diario).

Questa sorprendente tabula rasa produce un Moretti inedito, privo di situazioni e di battute memorabili, di quelle che poi seminano pensosi editoriali sui quotidiani di sinistra (scritti da gente che sa a malapena cos’è un raccordo sull’asse). Ciò che resta sono meravigliose cesure mute: la lentissima chiusura della bara di Andrea; Laura Morante che racconta ad una cena di amici l’arrivo di una lettera indirizzata al figlio morto, mentre Giovanni (imbarazzato, annoiato, geloso delle proprie intimità?) vorrebbe farla tacere, e le stringe forte la mano; Giovanni che tenta di rispondere alla lettera, ma proprio alla fine del foglio la sua penna si lascia andare ad un schizzo incoerente che vaga tra le parole e le imprigiona in un labirinto di incomunicabilità… Proprio il labirinto emerge a poco a poco come figura dominante del film. Il sogno di Silvio Orlando, comicamente zeppo di cunicoli e botole, ritorna nella scena immediatamente seguente, che esprime (con una sola carrellata) la scissione insita nel personaggio di Giovanni: vediamo lo psicologo che esce dal suo studio, percorre l’appartamento, varca porte, entra nel lato “casalingo” dell’abitazione e trova sua moglie al telefono, ed è in quel momento che diventa “marito”.

Oggetti e simboli si intrecciano in una catena anch’essa labirintica: il furto dell’ammonite (che ha la forma di una spirale e il corpo interno diviso in stanze separate) rimanda al dio egizio Ammone (poi dai greci identificato con Zeus), rappresentato sotto forma di ariete; ariete o toro come il Minotauro, mostro prigioniero nel labirinto di Creta, a cui venivano offerti dei giovani in sacrificio; Creta rimanda all’idea delle ceramiche: la teiera che Giovanni distrugge perché incrinata; incrinata (e si ritorna all’inizio) come l’ammonite che Andrea ruba. In un’altra sequenza fondamentale, Giovanni-Dedalo insegna ad Andrea-Icaro le tecniche di “volo” nel salto in alto; ma ciò non potrà impedire che il figlio muoia precipitando in mare… È questo intrico di cause inspiegabili e sentimenti offuscati, di religioni sanguinarie e oscure (solo gli Hàre Krìshna sembrano visti con benevolenza), che il razionale e laico Giovanni vorrebbe sciogliere: “Tornare indietro. É proprio quello che voglio fare”, precisa a sua moglie. E si costruisce una commovente serie di storie possibili, di “mondi alternativi” nei quali Andrea sarebbe ancora vivo (come, appunto, in quei miti antichi che fanno convivere una trama e la sua antitesi). Ma sarà proprio una ragazza di nome Arianna a sconfiggere il mostro del lutto, ancora celato nella stanza del figlio; a salvare la famiglia, attirandola fuori dal labirinto invisibile delle loro vite.

Sceneggiatura straordinaria, interpreti perfetti. Scene brevissime che tagliano sempre inaspettate e sembrano a volte “togliere la parola” proprio al protagonista Giovanni: ascoltiamo gli sfoghi dei pazienti, della moglie, dei figli, ma quasi mai la risposta dello psicologo-marito-padre, che probabilmente declinerebbe la tristezza in sarcasmo, l’angoscia in satira, e snaturerebbe il film. E quando poi questa risposta giunge, è sempre smorzata, pacificatoria: nel suo primo film dedicato alla famiglia, il Nanni collerico che ci era familiare appare irriconoscibile; o, per restare nello psicanalitico, “perturbante”. Con tale disconoscimento, Moretti regista apre il proprio cinema a sviluppi inaspettati, che preannunciano forse un’ulteriore coraggiosa rimozione: fare a meno anche del Moretti attore.

Regia: Nanni Moretti
Attori: Nanni Moretti – Giovanni, Laura Morante – Paola, Jasmine Trinca – Irene, Silvio Orlando – Oscar, Stefano Accorsi – Tommaso, Dario Cantarelli – Un paziente, Eleonora Danco – Una paziente, Toni Bertorelli – Un paziente, Stefano Abbati – Un paziente, Luisa De Santis – Una paziente, Renato Scarpa – Preside, Claudia Della Seta – Raffaella, Giuseppe Sanfelice – Andrea, Sofia Vigliar – Arianna, Claudio Santamaria – Commesso negozio per sub
Soggetto: Nanni Moretti
Sceneggiatura: Linda Ferri, Heidrun Schleef, Nanni Moretti
Musiche: Nicola Piovani
Durata: 90′

 

Articolo di Dante Albanesi (reVision)

 

Manfredi

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