La marcia dei pinguini: recensione del film di Luc Jacquet

Nel cuore dell’Antartico non vi è traccia dell’uomo, ma nella colonna sonora è più vivo che mai. E da questa quinta invisibile la sua presenza si fa sentire, poiché La Marcia dei Pinguini è uno dei documentari più loquaci dell’ultimo decennio. I pinguini imperatori di Luc Jaquet ricordano le sardine immaginate da un sarcastico Serge Daney in un suo celebre saggio (“L’organo e l’aspirapolvere”), nel quale immaginava un documentario dove il narratore dicesse: “I grotteschi animali, mossi da una passione ridicola, si precipitano nelle reti dei pescatori raggiungendo il colmo del ridicolo.”
Per Daney, la voce off “è il luogo di tutti i poteri, di tutti gli arbitri, di tutte le dimenticanze.” Il problema, però, non è tanto nella quantità di parole utilizzate, bensì nella loro “qualità”. La voce narrante del pur volenteroso Fiorello è lontanissima dal tono asettico dei documentari naturalistici stile BBC (che il primo Greenaway parodiò genialmente nei suoi corti sperimentali), ma si rifà esplicitamente all’andante con brio dei vecchi filmati comico-animalisti della Disney, con cui la RAI degli anni ’70 condiva copiosamente i nostri pomeriggi estivi. Non una voce che descrive, ma una voce che interpreta: un testo che (nel suo vuoto assoluto di dati scientifici) converte qualsiasi immagine ad un registro di lettura antropomorfo, dove ogni comportamento animale ha senso in quanto rimanda ad un analogo comportamento umano. Così, su una regia limpida e “professionale” da National Geographic si applica un copione da Disney Channel. Contrasto sul quale prolifera la figura retorica della similitudine, che basa la propria struttura sul “come”: il pinguino cammina come un uomo, ama i suoi figli come un uomo, avanza con i suoi simili come un uomo… L’immagine incarna il primo termine di paragone, la parola fissa il secondo.

Tante polemiche sul doppiaggio dei film stranieri possono sembrare esagerate o pretestuose. Ma in questo caso il doppiaggio assume il ruolo di una vera e propria regia aggiunta, che opera una riscrittura totale dell’immagine filmica. Fino a che punto Fiorello ha obbedito ad un testo scritto, e fino a che punto ha avuto licenza di improvvisare? L’accento scanzonato che mantiene dall’inizio alla fine è un'”imitazione” del narratore originale, oppure si tratta di una libera interpretazione? Siamo insomma molto vicini alle “aleatorietà testuali” di tanto cinema muto, dove il rapporto suono-immagine sfuggiva a qualsiasi costante. E lo slittamento semantico assume dimensioni clamorose, se si pensa che la versione americana del documentario ha addirittura cambiato la colonna sonora, dai gorgheggi pseudo-Biörk di Emilie Simon a una partitura di Alex Wurman. (Viene in mente Lucio Fulci che in un’intervista ricordò di aver visto da giovane A Propos de Nice con la musica di “Parlami d’amore, Mariù”.)
Purtroppo il vero cinema è altrove. Il documentario di domani rinuncerà ad affabulazioni infantili e melodie “atmosferiche”, e saprà trovare uno sguardo che si giustifica nella più primitiva missione del cinematografo: mostrare luoghi ed eventi lontani dai nostri occhi, in una progressiva e inesausta conquista del visibile. Il documentario di domani saprà arrendersi alla realtà. Per questo, pur nella sua confezione impeccabile, non è esagerato affermare che La Marcia dei Pinguini è un reperto archeologico, la versione (leggermente) aggiornata di una tra le maniere più vetuste di cinema documentario, al cui confronto Il Popolo Migratore è un gioiello d’avanguardia. E forse è a questo che si deve l’incredibile successo mondiale che sta riscuotendo. Gli spettatori de La Marcia dei Pinguini non scoprono spazi remoti, ma rammentano tempi perduti: la propria infanzia di spettatori televisivi.

Articolo di Dante Albanesi (reVision)

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