Intervista a Tindaro Granata: la provincia siciliana, i rapporti umani ed il teatro.

Tindaro Granata

Autore, attore e regista Tindaro Granata nasce a Tindari, comune della provincia messinese. Nel 2002 inizia il suo percorso artistico con Massimo Ranieri con la messa in scena di Pulcinella per la regia di Maurizio Scaparro. Negli anni collabora con Carmelo Rifici, Roberto Guicciardini, Nikita Milivojevic e Serena Senigaglia.

Debutta in qualità di drammaturgo/regista/attore con Antropolaroid, spettacolo sulla storia della sua famiglia, seguito da Invidiatemi come io ho invidiato voi. Infine, al Festival Primavera dei Teatri 2016, presenta in anteprima Geppetto e Geppetto.

Considerato una delle scoperte più interessanti del teatro italiano nel 2013 vince il Premio Mariangela Melato come Attore Emergente e  il Premio Fersen alla Regia per Invidiatemi come io ho invidiato voi e nel 2014 il Premio Internazionale Orgoglio Siciliano in Europa come Regia Teatrale 2014 e il Premio F. Enriquez per la Drammaturgia di Invidiatemi come io ho invidiato voi.

Antropolaroid, Invidiatemi come io ho invidiato voi e Geppetto e Geppetto affondano le radici nel presente per raccontare, attraverso la potenza del teatro, la complessità dei rapporti umani. Come nasce quest’esigenza?

Desidero amare ed essere amato.
Spesso mi sento incapace di gestire il mio cuore, la mia voglia di possedere e di essere, a mia volta, posseduto da chi amo.
Certi momenti non mi concedo abbastanza e mi vedo come impacchettato con la plastica e so abbracciare e toccare il corpo degli altri, col mio, profondamente, strettamente, ma spessissimo non so dire…
Non ho parole per essere presente a chi amo e faccio fatica a parlare e a piangere, anzi se devo dirla tutta, piango solo se mi trovo con la musica e parlo solo se sono solo.
Ho bisogno di scrivere e raccontare storie per trovare il filo della mia e mettere sullo schermo un pensiero che mai verbalizzerò ad una persona cara.
I vecchi siciliani mi hanno insegnato questo: “raccontare e raccontare per ricordare e gioire”.
Ma la natura dell’uomo è “dimenticare e dimenticare per non soffrire”.
A volte scrivo per trovare la parte bella e pulita di me.

In Geppetto e Geppetto, pièce di grande successo di pubblico e critica al Festival Primavera dei Teatri, hai raccontato con grande sensibilità dialettica il tema della step child adoption, senza posizioni preconcette e senza forzature dimostrative. Quanto di te c’è in questo spettacolo?

Preferisco non rispondere a questa domanda, sarei bugiardo come un obbrobrioso politicante, dicendo che: “in Geppetto e Geppetto di me c’è tanto e niente” e siccome il tanto e niente, insieme, son ‘na vigliaccata, meglio che stia zitto.

Quanto è difficile riuscire a sollevare attraverso il teatro opinioni che siano scevre del punto di vista del drammaturgo?

E’ difficilissimo, anche perché ogni argomento che si tratti ha di per sé una radice, oppure un’ombra, della propria opinione. Si può tuttavia, cercare di avere dei punti di vista diversi sullo stesso tema, l’importante è non essere chiusi, a senso unico, contemplare la possibilità che di ogni argomento ci siano più verità.
Il drammaturgo, credo, che debba tirare fuori quella verità che crede essere libera il più possibile dalle proprie opinioni e dal proprio credo. Un testo ha forza quando arriva al cuore del problema di cui parla.
Spesso mi si chiede come fare a capire se un testo o uno spettacolo siano importanti e di grande valore e io dico: “Se a distanza di tanto tempo ti ricordi cosa hai provato vedendo quello spettacolo, se ci pensi spesso, vuol dire che era uno spettacolo importante, per te. Se al contrario ti ricordi solo la trama allora era uno spettacolino”.

Nel lavoro di Pommerat Pinocchio è un adolescente arrabbiato delle banlieue parigine. Il tuo Geppetto è la famiglia dei nostri giorni. Perché a distanza di tempo il testo collodiano continua ad ispirare intere generazioni teatrali?

La figura creata da Collodi è affascinante perché racchiude in un solo personaggio di fantasia quello che l’uomo può esprimere in molteplici forme, nel pensiero, nel comportamento, nei vizi e nelle virtù.
Non riesco a fare un ragionamento profondo, ma corro il rischio di essere banale, dico che da che esiste il mondo esistono i figli e i genitori ed è alla base delle relazioni tra gli esseri umani.
E’ sicuramente una storia che ha tanti strati e tanti punti di vista e tante chiavi di lettura, ma è anche, semplicemente, la storia di un padre e un figlio.

Quanto contano le radici?

Ah! Mio Dio! Senza essere di Tindari non sarei stato Tindaro. La mia terra mi ha dato tutto quello che ho potuto chiederle. A volte avrei voluto di più, ma devo accontentarmi dei talenti che ho ricevuto e cercare di svilupparli e migliorarli sempre di più. Ogni volta che finisco di scrivere un testo mi sento svuotato e dopo averlo messo in scena credo che non avrò mai più idee e capacità di fare quello successivo. Se ho capito bene dai racconti di alcune mie amiche è come la sindrome post parto.

Quanto di Tindari c’è nella drammaturgia di Tindaro?

Tutto ciò che ho scritto fino ad oggi è pensato prima in dialetto e poi tradotto in italiano. Quando mi dicono che delle scene dei miei testi non funzionano, mi rendo conto che sono state scritte in italiano senza il processo della traduzione dal dialetto.

Che tipo di lavoro fai con gli attori impegnati nei tuoi testi?

Mi piacciono gli attori liberi, pazzi, incoscienti e senza paura. Ma rigorosi e rispettosi degli propri partner. Cerco di infondere loro l’idea che lo stare davanti al pubblico è godere. Non in maniera egoistica e auto-rappresentativa, sappiamo tutti che per godere bisogna saper far godere gli altri. Cerco di fargli vedere cosa potrebbero arrivare a fare se fossero liberi dalla rappresentazione del personaggio.

Che rapporto hai con la scena?

Ho bisogno di avere il contatto con il pubblico. Devo sentire che c’è. Non che mi segua e mi applauda o rida o chissà cos’altro, ma devo sapere che è lì, con me. Certo non è possibile poterlo capire ma la scena, per me, è niente se non c’è il fruitore più importante.

Qual è l’urgenza del teatro in questo momento storico?

Sinceramente non lo so, sono confuso in merito. Quando vedo uno spettacolo folgorante, mi accorgo che faccio questo lavoro perché credo che il teatro possa spostare il pensiero di alcuni eletti, e credo che saranno quelli che salveranno la nostra società. Ci credo che è possibile trovare una salvezza a questa solitudine.
Quando invece vedo che si fa teatro per fare borderot, o si espongono i divetti televisivi per acchiappare i ninfomani dell’etere o ancora si mettono in scena testi per coprire buchi nelle stagioni dei teatri…beh…penso alla fortuna che ho ricevuto da mio nonno che mi ha insegnato a innestare e potare gli alberi e “fare” la campagna, e l’arte imparata se l’hai messa da parte, si sa, potrà essere una buona alternativa alla depressione.
Però penso anche che le compagnie giovani, oggi, proprio perché è molto difficile e molto confuso tutto il sistema, se fanno teatro è perché vogliono parlare una lingua antica che riconoscono come unico mezzo di comunicazione per mente e il cuore degli uomini e in questi tempi, in cui tutto è mediocre e si tende alla semplificazione di ogni pensiero e sentimento, forse il teatro solamente può essere una via per non intristirsi, quindi è urgente occuparsi di teatro!

E quale la sua funzione sociale?

A Milano c’è una scuola, il Liceo Virgilio, che ha più di duemila abbonamenti nei teatri della città. Le professoresse, capitanate da un’ insegnante di religione, si occupano di portare i ragazzi a teatro alla sera e il giorno dopo ne parlano in classe. Molti dopo il diploma continuano ad andare a teatro. Questo è un esempio di funzione sociale del teatro, per me.

In che modo un giovane artista italiano può trovare uno spazio all’interno del sistema teatro?

Boh. Forse l’unico modo è essere onesto e sincero con se stesso, con il proprio lavoro e con gli altri. Non ne conosco altri modi, forse ce ne sono, ma questa è una ricetta per poter bruciare a lungo e non spegnersi alla prima folata di vento.

Quali sono i tuoi punti di riferimento teatrali?

Sto cercando di trovarli. Non avevo avuto una formazione accademica, mi sono dovuto creare dei punti di riferimento, rispetto ai miei gusti e alle mie possibilità. All’epoca, quando vivevo a Roma e cercavo, a tutti i costi, di fare questo lavoro, l’unico accesso che avevo a questo mondo per economie e praticità erano i film e quindi ho preso a modello i registi che mi hanno accompagnato in quelle sere stanche dopo 8 ore in piedi per fare il commesso o il cameriere.
Alcuni film sono presenti nel mio modo di lavorare, anzi, il cinema non l’ho mai fatto ma ho “sceneggiato” e “girato” i miei film a teatro. Adesso, dopo essere diventato un autore/regista, oltre che attore, sento la responsabilità di dovermi evolvere, migliorare, approfondire alcune modalità di approccio al testo, alla regia soprattutto alla recitazione ed è difficilissimo perché quando recito i miei testi mi sembra più semplice ma quando mi faccio dirigere da altri sono un “cane”. Comunque ultimamente ho avuto la grande fortuna di scegliermi le persone con le quali ho voglia di crescere e direi che sono loro i miei punti di riferimento attualmente, primo tra tutti Carmelo Rifici.

Da spettatore cosa vedi a teatro?

Sono entusiasma quando vedo qualcosa che mi stupisce e sono critico se un lavoro lo trovo fine a se stesso o “furbo”.
Non mi permetto mai di esprimere i miei giudizi negativi (a meno che i lavori in questione appartengano a miei amici che mi chiedono un confronto) perché rispetto il lavoro di tutti e se l’hanno fatto vuol dire che ci credono e ci mettono tutto l’impegno possibile come faccio io con i miei, quindi perché i miei lavori dovrebbero essere meglio di quelli degli altri?
C’è già troppa cattiveria in giro e non voglio certo alimentarla.

Un’ultima domanda prima di lasciarti. Hai progetti in lavorazione nel prossimo futuro?

Sì, ce li ho, ma sono confusi e non vogliono che li sveli. A volte mi vengono in sogno e mi svegliano di soprassalto, a volte invece me li trovo per strada e mi spaventano. Mi sento pericolosamente attratto come se fossi un diabetico di fronte ad un tiramisù di tre chili. Vorrei una casa e la campagna e vorrei che la mia famiglia non avesse problemi di salute e si godesse la vita e mi piacerebbe parlare con i morti per raccontargli e farmi raccontare cose dell’altro mondo.

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