I segreti di Brokeback Mountain: recensione del film con spiegazione del finale

I Segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee è un kolossal. Quasi inevitabilmente un kolossal, visto che è tratto da un racconto lungo di Annie Proulx riconducibile alla tradizione del romanzo epico americano. Un kolossal dal plot lineare e classico per la messa in scena di una storia d’amore; tutt’altro che chiassoso ma intimista, posato; con un nutrito cast giovane di rilievo e talento; che, pur mettendo in scena delle vicende ambientate tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, affronta un tema a tutt’oggi in discussione, anzi mai come oggi – finalmente e per forza di cose – in discussione. In fin dei conti si tratta di un kolossal moderno o magari postmoderno da un punto di vista conservatore, che tra i suoi punti di forza ha l’estetica, curata da ogni punto di vista ma mai fine a se stessa – e a spiccare in questo ambito è la fotografia del messicano, sempre più utilizzato a “Hollywood”, Rodrigo Prieto, del tutto efficace per esempio nel restituire un originale sapore western nell’atroce quanto isolata sequenza mnemonica. Quella messa in scena da Ang Lee è quindi una storia d’amore classica che ha come variante prima l’omosessualità e nel contempo una storia di omosessualità a grandi linee altrettanto classica che però si distingue da molte altre portate alla ribalta popolare perché prima di tutto ha come protagonisti due persone assolutamente comuni, poi perché appunto prende vita negli anni Sessanta e per giunta si svolge lontano dalle metropoli, in un ambiente macho e culturalmente legato alle tradizioni; si tratta di un flashback nella disastrata e/o ottusa provincia americana vista e rivista soprattutto nelle produzioni indipendenti (o almeno cosiddette) degli ultimi vent’anni.

Il noto regista di Taiwan è riuscito a dare vita a un film coinvolgente a cui si può certo dare atto di scansare di netto l’ipocrisia, anzi di mettere in luce ciò che normalmente viene nascosto, non fino in fondo magari, ma di sicuro per quanto necessario, evitando il voyeurismo: un film quindi assolutamente degno. Sono gli accenti sul pathos, presenti più che altro nel finale del film, ad apparire non sempre necessari, a spingere verso il melodramma; ma si sa quanto l’epilogo, nelle megaproduzioni statunitensi, seppure d’autore, sia spesso condizionato da logiche commerciali. Visti anche i tanti premi ricevuti dal film, più o meno significativi, va comunque riconosciuto a certe scelte di aver prodotto l’effetto desiderato, in questo senso il meno compromettente: alla fine resta in primo piano un tabù, quindi si può dedurre la funzionalità (o almeno sperarci) di certi artifici attuati per fare arrivare il tutto al grande pubblico. A emergere inoltre è la critica sagace di Lee al modello familiare classico, ricorrente nella sua eclettica filmografia (vedi Tempesta di Ghiaccio o Il Banchetto di Nozze): una famiglia che sembra destinata sempre e comunque quanto meno al fallimento, e Alma Jr., la figlia del protagonista di questo film – Ennis Del Mar – alla fine porta via con sé questo peso, questa scomoda “eredità”. Un kolossal non certo comodo insomma, che stupisce anche perché, proprio nell’eclettica filmografia di Ang Lee, arriva dopo Hulk (2003); ed è questo stupore a dar vita alla speranza più grossa, forse l’unica concreta, che il regista lascia allo spettatore. Un regista che, soprattutto con I Segreti di Brokeback Mountain, si dimostra abile sia, in un primo momento, a innalzare la materia narrativa sia, in un secondo, a contenerla, a gestirla senza (eccessive) cadute di stile; una dote rara.

Articolo di Luca Gricinella (reVision)

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