Giuseppe Massa: costruire nuove case teatrali piuttosto che difendere l’indifendibile

Giuseppe Massa

Giuseppe Massa nasce a Palermo nel 1978 e debutta come attore nel 1997 in Miraggi Corsari di Claudio Collovà, col quale intraprende un percorso di formazione lungo 8 anni. Nel 2002 è diretto da Antonio Latella in Querelle de Brest di Jean Genet. Nel 2006 fonda insieme a Fabrizio Ferracane e Giuseppe Provinzano la compagnia Sutta Scupa, che prende nome dal suo primo lavoro scritto e diretto. Il grande successo di pubblico e di critica porta lo spettacolo ad una lunga tournée in Italia e in Europa. Il testo viene segnalato ai premi Ubu, e alcune scene vengono inserite da Wim Wenders nel film “The Palermo Shooting”. Sempre lo stesso anno è diretto da Matteo Bavera e Franco Scaldati nella Gatta di Pezza che debutta allo Schauspielhaus di Dusseldorf per il Festival “Das Neue Europa”. Nel 2008 scrive e dirige Rintra ‘U Cùori(omaggio a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti) che debutta al Festival delle Colline Torinesi. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Garibaldi alla Kalsa, approda in diversi festival europei. Nel 2009 mette in scena Sabella di Franco Scaldati. Nel 2011 scrive insieme a Federico Bellini e Sybille Meier Mamma Mafia, prodotto dallo Schauspielhaus di Colonia; e Kamikaze Number Five che debutta al Napoli Teatro Festival, entrambi i lavori vengono messi in scena da Antonio Latella. Per i Teatri Uniti di Napoli scrive e dirige Nudo Ultras. L’anno successivo per L’Union des le Teathre de l’Europe, scrive e dirige Chi ha paura delle badanti?, che debutta all’Emergency Entrance Festival di Graz (Austria) e vince il premio Museo Fratelli Cervi di Gattatico(Reggio Emilia); scrive Nel Fuoco(a Noureddine Adnane) messo in scena da Lukas Langhoff per il Festival Voicing Resistance di Berlino. Nel 2014 traduce in siciliano e dirige Richard III(straggi-luttu), presentato alle Orestiadi di Gibellina. L’anno scorso debutta al Teatro Libero di Palermo con Chi ha paura di migrare?, una trilogia sulla condizione di vita dei migranti; e al Napoli Fringe Festival con Scùossa.

Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te/voi, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?

Se per crisi s’intende un momento di rottura, un conflitto, dopo il quale nulla sarà come prima, allora credo che in questo momento siamo dentro l’apice della crisi. La causa di questa crisi non è da ricercare nel teatro (attori, registi, autori, pubblico, ecc.), bensì nel “sistema teatro”. E per “sistema teatro” intendo specificatamente le politiche culturali dettate dall’alto. Ho iniziato a fare l’attore alla fine degli anni ’90, e ho avuto il privilegio di vivere questo mestiere-missione-passione in primo luogo come un esperimento artistico e umano che per certi versi andava anche al di là del prodotto finale, ovvero lo spettacolo. In questa fase osservo invece, che le scelte politiche dettate dall’alto mirano coscientemente a emarginare, se non a eliminare del tutto, questo tipo di esperienze, favorendo altresì prodotti teatrali di facile consumo, di facile botteghino, a zero rischio, accomodanti, gradevoli, carini. Questo tipo di spettacoli, più che al teatro come momento di crescita artistica e culturale collettiva, mira all’intrattenimento, a una sorta di “nobile passatempo”, nel migliore dei casi, a una specie di passatempo di qualità. In sintesi se il teatro è in crisi, la causa è da ricercare nelle politiche culturali che ne determinano le sue disfunzioni.

Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?

Le idee forti ci sono. Con diversi background e diversi obiettivi estetici e formali, ci sono diverse compagnie e artisti che provano a realizzare idee forti. Non vi è semmai il terreno fertile affinché queste idee crescano, prendano forma, si attestino e si confrontino col “grande” pubblico. Quello che viviamo è un periodo di profondo conformismo, in cui l’originalità, il rischio, la ricerca teatrale (ovviamente non fine a se stessa), la drammaturgia contemporanea, vengono viste quasi con sospetto, paura e diffidenza, dai direttori teatrali, dagli operatori, e per certi versi anche da certa critica. Non bisogna abituarsi al conformismo, tutto qua. Chi ne paga le spese in primo luogo sono gli artisti, invitati quasi ad autocensurare le idee più “pericolose” e perigliose (ma forse anche le più interessanti), però in secondo luogo è anche il pubblico che lentamente, ma inesorabilmente, si abitua a vedere spettacoli in cui si sonnecchia beatamente, o in cui, nella migliore delle ipotesi, ha trascorso un’oretta e mezza di buon teatro di intrattenimento. Il pubblico non desidera a priori questo tipo di spettacoli, ma viene indotto, attraverso l’abitudine, a desiderarlo. È un processo che nel cinema italiano è facilmente riscontrabile dalla fine degli anni ’70 in poi. Quando ho iniziato a recitare alla fine degli anni ’90, il teatro resisteva, era riuscito in qualche modo, magari anche isolandosi eccessivamente in una nicchia, a preservarsi da questo declino culturale in cui è sprofondato l’intero paese. Adesso pare che sia venuto il momento di fare i conti.
Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?

Dal basso si può fare tanto, ma se non cambia il modello culturale, e quindi le politiche culturali dei governi, siamo destinati a una splendida, quanto probabilmente perdente, resistenza. Ho avuto la fortuna di partecipare attivamente alle esperienze di occupazione dei teatri che negli anni scorsi hanno fortemente messo in discussione il modello culturale vigente in Italia. In particolare nella mia città (Palermo) si è attivato un processo collettivo, culturalmente e politicamente forte e innovativo durante l’occupazione del teatro Garibaldi. Bene, quella esperienza, insieme a quella del teatro Valle e ad altre, è finita; ma ha lasciato dei semi nel tessuto umano della città, una fra tutte la successiva occupazione di un padiglione della ex Fiera del Mediterraneo trasformato in un vero e proprio polo culturale autogestito: il Teatro Mediterraneo Occupato. In altre città ci sono esperienze simili (penso al Coppola di Catania o all’ex Asilo Filangieri di Napoli), che sono ancora splendidamente in vita e sono diventate un baluardo di libertà all’interno del loro territorio. Come queste esperienze si evolveranno dipenderà soprattutto da quanto riusciranno a incidere sulle scelte delle politiche culturali cittadine. Fondamentalmente, la questione è meramente economica, bisogna semplicemente accettare che il teatro nella stragrande maggioranza dei casi, da solo non si regge economicamente (è una disciplina artistica tra le più anticapitaliste che ci sia!), si possono certo creare dei meccanismi di pura sopravvivenza, ma non è di questo che abbiamo bisogno. In tutti i paesi in cui il teatro ha ancora una forte influenza sulla società contemporanea, gli investimenti economici in generale sulla cultura sono consistenti. Fare in modo che però questo flusso di denaro pubblico non venga sperperato è un altro tipo di problema.

Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?

No. Non lo sostiene adeguatamente nella misura in cui dovrebbe essere sostenuto il teatro in un paese dai forti presupposti culturali come l’Italia. Lo sostiene male, le ultime decisioni in merito alle politiche culturale nazionali sono state una mannaia sul collo delle compagnie indipendenti che ravvivano il sistema teatrale, favorendo di contro operazioni di facile botteghino e facile consumo. Non ne beneficiano tutti, bensì una nicchia sempre più ristretta, sempre più esclusivista, sempre più paradossalmente commerciale, in definitiva, sempre più asserragliata dentro una torre d’avorio che sta per crollare. Insomma, bisogna cominciare a costruire delle “nuove case teatrali” post terremoto, piuttosto che difendere l’indifendibile, il destinato a crollare.

Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te/voi.

Defiscalizzare radicalmente tutte le attività lavorative che ruotano o si svolgono intorno al mondo teatrale (in Inghilterra vi sarebbero alcuni interessanti esempi da seguire); introdurre fin dalla scuola dell’infanzia almeno un’ora alla settimana di studio del teatro, proseguendo per tutte le scuole di ogni genere e grado. Sarebbe un mondo in piccola misura un po’ più felice.

Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”? Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?

Assolutamente sì. Il confronto tra il passato e il presente genera il futuro. Il problema è che però spesso la scelta dei classici va a discapito della drammaturgia contemporanea. Gli autori viventi sono fortemente penalizzati in Italia rispetto ad altri paesi (penso di nuovo all’Inghilterra o alla Germania). Fondamentalmente è la solita paura di rischiare, paura del nuovo.

Si può parlare di “dittatura teatrale” nel mondo delle arti in scena? Se sì, perché?

Non mi pare proprio. Stiamo parlando di una disciplina artistica che in Italia è già di per sé in grave difficoltà. Ovviamente mi riferisco al teatro di prosa in generale, la lirica è già un’altra questione. Forse più di una dittatura teatrale si potrebbe parlare di una dittatura lirica. Parliamoci chiaro, sappiamo benissimo che la stragrande maggioranza dei soldi pubblici che lo Stato investe sulla cultura vanno in gran parte all’opera lirica e in secondo battuta ai teatri nazionali e ai Tric. Le briciole rimangono alle compagnie indipendenti e ad altre piccole ma importanti realtà che lavorano sui territori.

È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune?

Ho partecipato ad alcuni incontri o tavole rotonde che in certo qual modo hanno affrontato questo tema. Io penso che il confronto-scontro sia basilare e quindi sempre auspicabile e proficuo. D’altro canto per quanto riguarda la critica, ritengo assolutamente opportuno che ognuno persegua i propri obiettivi evitando inutili promiscuità.

Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole?

Senza spettatore non c’è teatro. Fosse anche un solo uomo davanti un altro uomo. Ciò implica rispetto e onestà nei confronti dello spettatore. All’ingresso di uno spettacolo è come se si stipulasse un patto tra lo spettatore e lo spettacolo. Dovere dello spettacolo è quindi quello di rendere onore a questo patto implicito. Ho assistito a spettacoli che non mi sono piaciuti nella forma e\o nel contenuto, ma che, mantenendo fede a quel patto, mi hanno in qualche modo trasformato.

Prima di salutarti, ringraziandoti per la collaborazione, ti chiediamo un’ultima riflessione: qual è la tua missione teatrale? Come immagini la situazione culturale e teatrale italiana nei prossimi cinque anni?

Raccontare storie periferiche provando a renderle universali e ponendo a me stesso e al pubblico delle domande, al di fuori da ogni preconcetto o retorica. Cercare una forma estetica che esalti tale obiettivo, in tutta onestà non l’ho ancora trovata.
Nei prossimi cinque anni, a meno di improbabili quanto seppure auspicabili spinte dal basso, la situazione culturale italiana probabilmente peggiorerà. Dunque, mi sto già preparando l’armatura: la lucido e la controllo ogni mattina, e giornalmente invito me stesso, anche se il più delle volte non ci riesco, a odiare apertamente e pubblicamente determinate politiche culturali che sopprimono la diversità, specifici spettacoli, e\o registi, e\o direttori, che perseguono i fini delle politiche culturali suddette, ad accettare la sfida, a rendere onore al patto implicito col pubblico, a non aver paura del confronto, della sconfitta, a non perdere il contatto con la realtà e con gli artisti che stimo, a non aver paura, insomma.
Ora vado a lucidare l’armatura, la sfida è ardua.

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