Giovanna D’Arco, la rivolta a Officina Teatro

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Giovanna D’Arco – La rivolta è uno spettacolo allestito dai registi Luchino Giordana ed Ester Tatangelo, tratto dal testo della drammaturga Carolyn Gage e interpretato da Valentina Valsania.

Prima di formulare personali ipotesi interpretative sullo spettacolo suddetto, occorre riferire alcune delle affermazioni estrapolate dal continuum monologico della Giovanna D’Arco immaginata da Carolyn Gage: difatti lo spettacolo è tratto dal testo omonimo, che la drammaturga pubblica di recente, nel 2016.

Iniziamo così con «Eccomi qua, tagliata fuori…» con cui l’eroina di Francia descrive la propria esclusione dall’universo maschile, nel quale lei pur riesce a entrare da combattente nell’anno 1429 – la Storia lo tramanda – alla testa delle armate francesi contro le inglesi, per poi uscirne – come tutti sanno – orribilmente, con una condanna al rogo eseguita nel 1431, “supplizio per eresia”: una storia di prodezze tutta al femminile, che si consuma in un tempo esiguo «dai diciassette ai diciannove anni», lei stessa più volte lo rammenta.
E’ una Giovanna D’Arco che vuole scrollarsi di dosso il mito dell’eroina nazionale santificata e canonizzata, e dunque pensa bene di aggiungere al racconto del proprio vissuto particolari più intimi, familiari, a partire dal vero nome Jeanne Romée, presentata come una contadina priva istruzione, figlia di un uomo dedito all’alcool e di una pia donna, la cui più radicale manifestazione di libertà è stata l’avventura di un pellegrinaggio a Roma.
Nel frattanto mi sembra che la scrittura della drammaturga non aggiunga altre caratteristiche al personaggio, salvo rimarcarne oltre misura, insistentemente, l’ostilità nei confronti degli uomini e il disprezzo delle convenzioni sociali che, come lei stessa riconosce, marginalizzano la donna, costringendola a vivere nascosta, al servizio del consorte entro i perimetri domestici; manifesta altresì la convinzione che le donne, le donne di tutti i tempi, siano solo «inserti nella vita dell’uomo», inclini all’autodistruzione, vittime a tal punto dell’ipocrisia maschile da convivere con la bugia senza avvedersene. Infatti la Valsania nei panni di Giovanna non ha difficoltà ad ammettere che «la bugia è il contesto dell’esistenza di una donna».
Sostiene altresì che «non c’è uomo sulla terra che possa sbarrare la strada a una donna convinta che le sue azioni siano giuste» e aggiunge ancora: «sento tanti discorsi sulle donne che perdonano gli uomini. Io a questo non credo proprio. Non c’è una cosa chiamata perdono».
Afferma di essere considerata ancora oggi «un’informazione non essenziale nei libri di storia» «nei libri che avevano in mente gli uomini» e poi, con sfrontata sicurezza, aggiunge che «bisogna rimettere la vita nel testo principale».
Così emerge un carattere predominante del personaggio, il risentimento, nei confronti degli uomini prima di tutto, poi delle istituzioni, della “pubertà”, che ridurrebbe le donne a spose e a madri, ruoli da cui lei invece decide di fuggire con sdegno.
Naturalmente, e a buon ragione si intende, non manca di esprimere livore, col tono inasprito del sarcasmo, nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche che l’hanno condannata al rogo, e rifiuta per sé, coerentemente si capisce, gli attributi di santità conferitile dalla canonizzazione, rivendicando di contro una sincera natura femminile – seppur ribelle e combattiva – un’anima spirituale, comune quest’ultima a tutte le donne, sebbene la sua sia impreziosita dalle amorevoli confidenze che le sussurrano le voci dei Santi a proposito delle future imprese.
Quel che più disturba delle asserzioni del personaggio, come di quelle precedentemente riferite, risiede nella pretesa di ‘assolutezza’ che esse comunicano, nella presunzione di verità univoca che non ammette repliche, eccezioni e differenze: se il teatro deve interrogare lo spettatore, “suscitare delle domande, non dare delle risposte definitive” – come dichiara anche la regista Ester Tatangelo in un’intervista – perché questo personaggio, portavoce dell’autrice, sembra imporre, non ammettendo appunto repliche, una sua visione totalizzante dei rapporti tra sessi? C’è infatti da precisare che la Pulzella d’Orleans mentre ci sta parlando della sua personale vicenda di abusi e di torture, subite per mano dell’Inquisizione francese, sta anche impropriamente (cioè senza tener conto delle differenze tra due contesti storicamente determinati) – sovrapponendo alla sua storia di torture medievali quella di tutte le donne vittime di abusi e di violenze. Perché farlo?
L’autrice, nell’’introduzione al testo, potrebbe star fornendo uno scorcio interpretativo affermando che «Giovanna d’Arco – La rivolta è stato il testo del mio “coming out”. L’ho scritto nel 1987, poco dopo essermi dichiarata lesbica, dopo la fine del mio matrimonio, dopo essere stata costretta a lasciare la mia chiesa, dopo aver risanato i miei ricordi di abusi infantili ed essermi separata dalla mia famiglia, mentre cominciavo a sentirmi una drammaturga professionista. Nello stesso periodo, ero stata coinvolta in una causa ad alto profilo contro una grande istituzione statale, nella quale io ero un informatore. Dopo aver respinto un’offerta di patteggiamento, il procuratore generale dello Stato aveva alzato il tiro e io mi ero ritrovata ad essere il bersaglio di una moderna caccia alle streghe».

E’ possibile, dunque, che la parabola eroica di Giovanna d’Arco serva all’autrice a raccontare la sua personale vicenda omosessuale? Del resto lo spettacolo si chiude con una dichiarazione d’amore di Giovanna all’amica di infanzia, e questo basterebbe a giustificare una tale – a mio avviso riduttiva – chiave di lettura.

«Odiare comporta forza, costanza, memoria. Odiare è una disciplina». Di chi è questa rabbia, allora, ci domandiamo? Di Giovanna, condannata per eresia, o di Carolyn, discriminata perché omosessuale?

Questa è l’unica vera domanda che mi pongo al termine dello spettacolo.

 

Di Carolyn Gage

Traduzione Edy Quaggio

Con Valentina Valsania

Regia Luchino Giordana ed Ester Tatangelo,

Assistente alla regia Giulia Cosentino

Musiche Arturo Annecchino

Light designer Diego Labonia

Scene  Francesco Ghisu

Costumi Ilaria Capanna

Video e post produzione Michele Bevilacqua

Foto di scena Angelo Maggio

Ufficio Stampa Francesca Melucci

Produzione Hermit Crab

 

Andato in scena a Officina Teatro di Caserta il 4 e il 5 febbraio.

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