Fuocoammare di Gianfranco Rosi: Lampedusa e il dramma dei migranti

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Italia, 2016

Regia: Gianfranco Rosi

Durata: 1 h e 46 min.

Lampedusa è sempre stata crocevia mediterraneo tra Africa e Europa; oggi è anche il paradigma della fallimentare visione politica comune europea e dell’ineluttabile cambiamento storico del nostro continente derivante dai flussi migratori.

Gianfranco Rosi, documentarista già premiato con il Leone d’Oro alla 70° Mostra del Cinema di Venezia per “Sacro GRA”, sembra aver colto al volo l’occasione di celebrare l’umanità tutta italiana di questo approdo indegnamente dimenticato dal mondo, costretto a tenere una terrificante contabilità dei morti in mare. Questo a dire il vero è ciò che il pubblico si aspetterebbe da un uomo che ha vissuto per due anni la vita isolana, partecipando con la sua cinepresa alle operazioni di soccorso; per Rosi tuttavia l’umanità non è solo accezione qualitativa di un atteggiamento di pietas, ma un contesto più ampio del vissuto che comprende azioni quotidiane, ritualità e gesti da osservare nella loro essenza naturale prima o al di là del loro significato.

La visione soggettiva di un documentarista non dovrebbe essere messa in discussione. Se tu vai al cinema per vedere “Fuocoammare” non vai a vedere un reportage giornalistico ma la visione personale e cinematografica di un uomo. Rosi ha maturato una sua comprensione di Lampedusa e questa ha voluto portare sul grande schermo; a Lampedusa ci sono Samuele con la sua famiglia profondamente sicula da una parte, mentre dall’altra ci sono gli immigrati, in pratica due mondi che non interagiscono e sembrano perfino non incontrarsi mai. Nel mezzo, ci sono persone straordinarie come il dottor Pietro Bartolo, in pratica l’unico punto di giuntura tra due storie parallele in forza della sua professione. Questa separazione non trae origine da nessun fondamento ideologico, né deriva da una sorta di saturazione da convivenza forzata; anche i lampedusani sentono le notizie degli sbarchi alla radio mentre tagliano le zucchine, perché non sono tutti “guardiani del faro”.

Il piccolo Samuele vive il solco delle tradizioni, tracce di una identità non imposta ma semplicemente vissuta con atavica tenacia, cerca di vivere il mare dei suoi avi nonostante gli faccia venire il mal di stomaco. Samuele guarda le vecchie foto di papà, ascolta i racconti della nonna in cucina, parla un dialetto talmente radicato da far storpiare in modo buffo il suo inglese a scuola. Samuele vive i residui di una identità selvaggia, aspramente mediterranea con le sue sortite notturne, le sue caccie con la fionda e il masculo rumoroso risucchio degli spaghetti col sugo di calamari.

Dall’altra parte dell’isola c’è il faticoso lavoro di uomini in tuta bianca e mascherina, in forza alla marina militare o al personale sanitario, operatori radiofonici e elicotteristi, che ogni giorno e ogni notte ricevono gli SOS dai barconi stracolmi di gente disperata, affamata, disidratata, morente. Le immagini di questi corpi martoriati dalla nafta, allo stremo delle forze, gli occhi delle donne che piangono i loro figli e i loro mariti perduti in mare sono devastanti. In tanti sostengono che a lungo andare, a forza di vederne così tanti ci si fa l’abitudine, ma invece non ci si può abituare mai, dice il dottor Bartolo con un filo di commozione. Ecco il grande oltraggio di Lampedusa, nella visione di Rosi; aver lasciato sole persone come questo medico dal cuore buono a reggere l’insostenibile peso della sofferenza e della morte. Vien da pensare che ogni scarico di responsabilità raggiunge e accumula il già greve peso sostenuto da questi uomini.

Realmente notevoli le inquadrature e il montaggio di Jacopo Quadri, ma è davvero impossibile prescindere dal portato di questa narrazione; l’Orso d’Oro a Berlino potrebbe sembrare anche una forma di riconoscimento a questo avamposto europeo, se non la goffa espressione di una specie di senso di colpa proprio dal paese che a tutti gli effetti è il “socio di maggioranza” dell’UE, ma al di là di ogni speculazione sulle logiche di premiazione questo documentario è un passaggio fondamentale nella attuale evoluzione del genere documentaristico, in un percorso di riabilitazione simile a quanto abbiamo già visto per le serie TV.

Di Gianfranco Rosi è interessante il citato documentario Sacro GRA sull’universo popolare delle zone più periferiche di Roma, tra interni catturati nella loro intimità famigliare e sontuose residenze kitsch. Come in Fuocoammare, anche qui Rosi colleziona le quotidianità di vite emarginate (non c’è la distanza segnata dal mare, ma dalla desolazione suburbana) in maniera non necessariamente armonica, cogliendo l’incomprensibile magnetismo dell’ordinario.

 

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