Dissonorata, dalla Pascalina di La Ruina a Marisa di Nicotera

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L’Italia che racconta Saverio La Ruina in quel bellissimo pezzo di teatro che è Dissonorata non è tanto distante da noi. Su una scena vuota, accompagnato solo dalle note di Gianfranco De Franco, La Ruina racconta lo stupro subito da Pascalina in un piccolo paesino del Pollino, ai confini con la Basilicata. L’episodio è raccontato in un calabrese molto stretto ma, attraverso i gesti, il timbro e una veste lunga fino al ginocchio, si compone il rito potente del “cunto” di una contadina analfabeta, che ripercorre la propria vita in un corpo a corpo con lo spettatore. Non siamo ancora nel 1981 quando fu riscritto l’articolo 544 del codice penale, che consentiva al violentatore di cancellare la propria colpa solo sposando la vittima, aprendo una riflessione sociale sullo stupro che culminò, nel 1996, in quelle “norme contro la violenza sessuale” che diventò reato contro la persona.

E Pascalina non ha la forza di Franca Viola, la ragazza di Alcamo che rifiutò di sposare l’uomo che l’aveva rapita e violentata. Ma, tornando all’incipit di questa recensione, l’Italia di Dissonorata non è tanto distante da noi se solo ricordiamo il caso di Marisa, la ragazza di Nicotera, gambizzata dal fratello in un bar, solo due mesi fa, perché “portava la minigonna”. Quanto c’è di diverso rispetto al tentativo, ideato dalla famiglia di Pascalina, di bruciarla viva per rimediare alla sua vergogna? Ecco, quindi, il dramma che diventa drammaturgia, il gesto atto e l’atto azione scenica. Il pubblico ha davanti a sé il corpo giovane di Pascalina, coperto a dovere, ascolta il suo flusso di coscienza e rivive, attraverso la sua voce, la sua tragedia, testimonianza di un’Italia che, in alcuni paesi, non è ancora uscita dal dopoguerra. La Ruina, però, recupera modalità di recitazione proprie della narrazione orale e ricama immagini e parole in un testo alieno da ogni connotazione psicologica ma che impone prepotentemente sulla scena, a partire dall’abito lungo che indossa, la condizione di subordinazione di Pascalina, costretta a negare la propria femminilità. In più, lei è l’esempio dell’oggetto di scambio in un regime patriarcale, dove il padre può decidere della vita o della morte di sua figlia, considerata solo come merce di scambio al pari delle bestie. Quindi, per chiarire il ragionamento, la povera “dissonorata” avrebbe potuto evitare il rogo se il carnefice l’avesse realmente sposata (durante i loro furtivi incontri, il “principe azzurro” le ripete sempre “spusamu, spusamu”) invece di partire vigliaccamente per l’America. Grazie al matrimonio riparatore, legittimato addirittura dalla Bibbia

Se un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, e l’afferra, e si giace con lei, e sono sorpresi,
l’uomo che s’è giaciuto con lei darà al padre della fanciulla cinquanta sicli d’argento, ed ella sarà sua moglie, perché l’ha disonorata; e non potrà mandarla via per tutto il tempo della sua vita.
(Deuteronomio 23-29)

il possesso di Pascalina sarebbe passato dal padre al marito, che avrebbe protetto il suo onore. Invece, evocata dalla forza esoterica del teatro, è diventata, con gli anni, la figura simbolica di un monologo, oggi più che mai necessario, che valse a La Ruina due premi UBU nel 2007 (“Miglior attore” e “Miglior testo italiano”).

Visto nell’ambito di Efestoval 2016 – Festival dei Vulcani, il 30.09.2016

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