Con la Madama Butterfly vincono solo Delbono e Steinberg

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Il Teatro San Carlo di Napoli riprende l’allestimento di Pippo Delbono della Madama Butterfly, un lavoro concettuale, mentale, rispettoso ma che ricalca, in forma bignamistica, le suggestioni principali del teatro delboniano.

Lo spettacolo parte con una dedica del regista a una sua attrice e a Bobò, “il piccolo uomo sordomuto” che lo aspettava in silenzio, fermo sulla porta del manicomio di Aversa, in attesa di andare via. Dopodiché comincia una Madama Butterfly cromatica, grazie al cambio luci di Alessandro Carletti, la cui vicenda si svolge in uno spazio chiuso, tra le pareti fredde di una casa asettica, una scena nuda architettata da Nicola Rubertelli con varie aperture verso l’esterno, aperte e chiuse, per l’occasione, dallo stesso Delbono in scena.

Il regista aveva già abituato il mondo operistico alla sua presenza costante in scena, una sorta di firma d’artista, secondo l’opinione di alcuni, ma, soprattutto, a mio avviso, un angelo necessario che accoglie il dolore di Cio-Cio-San vegliando sulla “casa a soffietto”. Il lavoro di Delbono non vuole ricalcare i cliché del teatro operistico ma, piuttosto, quelli del suo teatro abituando gli attori a una presenza scenica, fin troppo disciplinata, che funge anche da intermediario tra il palco e la platea. Segue l’azione, accoglie il figlio di Butterfly, Dolore, affidandogli Bobò, la persona che gli ha donato, nella vita reale, una nuova anima.

La Madama Butterfly di Pippo Delbono può non piacere per le interpretazioni statiche dei suoi protagonisti, per mancanza di slancio lirico nei momenti topici o di drammaticità durante le arie più famose ma ha alcuni momenti molto viscerali – lo spargimento delle rose sul pavimento bianco, l’apertura delle porte sul fondo sul finale di “Un bel dì vedremo” – in cui Delbono sfrutta la forza della partitura musicale per dare vita al suo mondo e alle suggestioni del suo teatro.

Le voci, invece, appaiono molto deboli, pur apparendo intonate e sicure tranne nel caso di Katarina Giotas, una Suzuki convincente, dalla voce potente e bassa, scura, che sa farsi, però, drammatica e tenera. Ottimo Pinchas Steinberg che ha saputo rendere tutta l’intensità del melodramma pucciniano che, in questo caso, insiste molto sulle scale modali per dare colore all’intera vicenda ma che riduce necessariamente la melodia all’essenziale. Un unico appiglio per lo spettatore, in assenza di voci forti, per poter rivivere con efficacia il dramma di Cio-Cio-San.

Belli i costumi di Giusi Giustino, che giocano con la simbologia orientale, e inutile l’intermezzo di “Questo amore” di Jacques Prèvert, letto da Delbono dopo il coro a bocca chiusa, che ha rovinato uno dei momenti più belli della Madama Butterfly.

 

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