Come spiegare la Grande Recessione attraverso il cinema

wall street douglas

Michael Douglas, in Wall Street, ha pronunciato il suo credo infame, cioè che “L’avidità è bene”. Tuttavia, Gekko, simbolo dell’avidità senza limiti, ha anche specificato che “È tutta una questione di soldi, il resto è conversazione.”

L’America che conta, quella con i soldi, segue pedissequamente questa massima di Gekko ma, al contempo, è in grado di spiegare perfettamente la sua stessa malattia con documentari pregiati come Capitalism: A Love Story di Michael Moore del 2009, realizzato col suo solito marchio di fabbrica dove diventa uno dei soggetti principali del film e mescolando la critica incisiva dei mali del capitalismo con un buon senso dell’umorismo, sagace e arrabbiato. Ma come possiamo narrare a un tredicenne di oggi l’ultima crisi economica?

Inside Job di Charles Ferguson, del 2010, ci prova e spiega, invece, come i cambiamenti nelle politiche governative e le pratiche bancarie abbiano contribuito a creare la crisi finanziaria. Un buon film, soprattutto se si considera che i film narrativi hollywoodiani non offrono una reale comprensione del sistema economico americano. La crisi finanziaria del 2007/2008, ad esempio, ha ridotto il sistema bancario sull’orlo del collasso; ci sono stati milioni di disoccupati, ha causato centinaia di migliaia di pignoramenti delle case riversando l’intera economia globale nel caos.

È stata la Grande Recessione che ha dato ad Oliver Stone l’opportunità di riportare in auge il personaggio di Gordon Gekko nel suo lucido Wall Street: il denaro non dorme mai del 2010. Purtroppo, a parte un paio di colpi ben assestati, non ha saputo raccontare le cause della Grande Recessione. In questo film il carismatico, cinico e manipolatore Gekko, interpretato, ancora una volta, da un Michael Douglas in forma, ritorna verso il mondo esterno, dopo otto anni di carcere per illeciti societari con appena un centesimo in tasca e un telefono cellulare. L’ottima regia di Oliver Stone è perfetta, nell’intento che ci siamo preposti, perché divide lo schermo, accelera l’azione narrativa, crea montaggi sorprendenti e racconta bene solo lo scenario di Wall Street che fagocita la critica feroce. Al contrario, The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese riesce anche a far capire l’origine di una crisi devastante sfruttando humour nero (Jordan Belfort che striscia drogatissimo fuori dalla sua Lamborghini per cercare di tornare a casa) e scene estreme.

Scorsese, in realtà, non tentare di spiegare la crisi del 2008; la Stratton-Oakmont è su uno scalino troppo basso della catena alimentare-finanziaria, che comprende anche Goldman Sachs e Morgan Stanley, per essere letta come rappresentativa di Wall Street. Scorsese, in realtà, va oltre: critica, attraverso il linguaggio pop, la cultura del denaro, la frenesia del possesso, attraverso il comportamento edonistico di Jordan Belfort.

Ci sono, poi, film come The Company Men del 2010 che racconta di vite sacrificate per il lavoro e sono una buona fotografia di un’epoca storica recentissima. Il regista, John Wells, che, in passato, ha lavorato a serie come “ER”, ha cercato un effetto drammatico narrativo ma ha saputo raccontare la paura e il pessimismo all’interno di un prodotto commerciale e per tutti. Ha saputo fare meglio, però, Jason Reitman, un anno prima, nella sequenza di apertura di Tra le nuvole, che raffigura la rabbia, la confusione e la disperazione di uomini e donne di fronte alla situazione economica e psicologica dovuta alla recessione. Tuttavia, i disoccupati sono solo un viatico per entrare all’interno di una commedia romantica. Al contrario, The Company Men guarda direttamente all’orribile mercato del lavoro e alla fine di un mondo dominato da gente con stipendi a sei cifre.

Tuttavia il film più notevole sulla Grande Recessione è Margin Call di J.C. Chandor del 2011. Oltre all’ossessione per il denaro, si riesce a cogliere anche la psicologia del popolo di Wall Street in una notte nel mese di settembre del 2008. Si tratta di un ritratto oscuro di Wall Street, ben calibrato, dove racconta anche una New York notturna, con bar e locali di striptease proprio per comunicare al meglio quel senso di cecità morale che investe, ancora tuttora, l’America.

Margin Call, più di tutti questi film, si avvicina maggiormente alla crisi finanziaria del 2008 ma, alla fine, analizzando i prodotti che arrivano da Hollywood, nessuna pellicola riuscirà mai a restituire il crollo morale vissuto dagli uomini pochi anni fa.

 

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