Cinema degli anni 90: i migliori film divisi per paese

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Mi accorgo sempre di più che il cinema degli anni ‘90 non viene preso in considerazione nel modo giusto e che eventuali recuperi vengono fatti solo per assecondare “operazioni nostalgia”. Sono legatissimo agli anni ‘90 perché, per questioni anagrafiche, ho cominciato a seguire il cinema durante questo periodo. Ho voluto, quindi, creare una mappa ragionata del cinema degli anni ‘90, in base alle diverse regioni del mondo, sia per mettere ordine nella mia vita “da cinefilo” ma anche per offrire un percorso, a mio avviso, imperdibile.

Iran

Parto con l’Iran perché adoro il suo cinema, fortemente riconoscibile: con i festival internazionali di cinema, l’Iran è stato scoperto ed è venuta fuori la sua poetica. La rivoluzione khomeinista ha imposto tanti divieti al punto che i registi – ancora oggi – devono lavorare “per metafore”. Pensate a quel che è accaduto a Jafar Panahi e al suo Taxi Teheran.

Da dove cominciare? Ecco alcuni titoli:“Sotto gli ulivi”, del 1994, e “Il sapore della ciliegia”, del 1997, sono due lavori sorprendenti di Abbas Kiarostami, regista coraggioso, che ha prodotto un cinema pienamente rappresentativo dell’Iran, dove gioia e dolore vanno a braccetto. Poi ci sono i film sui bambini, considerati dai registi iraniani come il futuro del paese: “Il palloncino bianco” di Jafar Panahi, del 1995, ne è un esempio ma anche “Salaam Cinema”, sempre del 1995, o “Il Silenzio” del 1998 di Mohsen Makhmalbaf. Provate a confrontare questo tema, trattato da loro, con i film di Rossellini e trovate le analogie.

Grecia

La Grecia non ha una grande tradizione cinematografica, però, negli anni ‘90, è uscito un film enorme, dal regista de “La recita”, che vale la pena menzionare subito. Si chiama “Lo sguardo di Ulisse”, di Theo Angelopoulos, ed è una dedica importante al Cinema e ai Balcani, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria del 48° Festival di Cannes, con un meraviglioso Harvey Keitel.

Cina/Taiwan/Hong Kong

Gli anni ‘90 sono stati gli anni di Zhang Yimou e del suo “Lanterne Rosse” e della magnifica Gong Li che hanno guidato un cinema semplice, realistico, ben stilizzato. È stata, però, anche la decade di Hou Hsiao-Hsen, un regista impegnato e politico che si è fatto conoscere con “Good men, Good Women”, e di Tsai Ming-Liang, il mio preferito che, nel 1997, tira fuori dal cilindro “Il fiume” che è riuscito a usare e a vagliare tutte le possibilità offerte dal cinema per offrire dei ritratti personalissimi, pieni di poesia e malessere. Un Rimbaud del cinema.

Invece ad Hong Kong c’è Wong Kar-Wai, uno dei più grandi cineasti degli anni ‘90. Ha caratterizzato un decennio, a livello mondiale, con la sua cifra stilistica: la leggerezza di “Hong Kong Express” nel 1994 e “Happy Together” nel 1997 sono solo due esempi di quel che diventerà in “In the mood for love”. Rallentatori, narrativa frammentata, storytelling fatto di immagini: non ha rivali.

Giappone

ll Giappone è uno dei paesi più rappresentati nella storia del cinema di tutti i tempi, ha registi fondamentali come Ozu, Mizoguchi, Oshima, Ichikawa, Kurosawa e tanti altri. Sono, però, cineasti che appartengono ad un’altra epoca e, negli anni ‘90, gli unici tentativi, creati da Kurosawa, di riproporsi sono stati abbastanza fallimentari. Questo perché c’era un esercito di registi col sangue agli occhi capitanati da Takeshi Kitano, capace di alternare la violenza più brutale all’amore dolce e raffinato tra un uomo e una donna. Due sono i capolavori da non perdere: “Il silenzio sul mare”, del 1991, e “Hana-Bi”, del 1997 (che, tra l’altro, ho conosciuto da adolescente grazie al consiglio di un signore su una spiaggia deserta calabrese ma è un’altra storia).

Eppure, come si diceva, non c’è solo Kitano ma ci sono anche giovani promettenti come Hirokazu Koreeda, impeccabile nel suo “After Life” del 1998, Naomi Kawase e Shunichi Nagasaki. Di Naomi Kawase vi consiglio “Moe no Suzaku” del 1997, vincitore della Camera d’Or come migliore opera prima a Cannes.

Francia

Arriviamo adesso alla Francia, molto amata da giovani alternativi, la Nazione, par excellence, che ha inventato il cinema o, almeno, un certo sogno di cinema con Lumiere e Méliès. Affermatasi negli anni ‘60 con la sua Nouvelle Vague, negli anni ‘90 campa ancora di rendita e propone film di Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol, Eric Rohmer e Alain Resnais. I registi più giovani, poi, comunque si rifanno allo stile dei loro padri:  propone due bellissimi film, “J’entends plus la guitare”, del 1991, e “La Naissance de l’Amour”, del 1993 ma non è niente di nuovo dal punto di vista del linguaggio.

Qualcosa, però, si smuove: Olivier Assayas e Leos Carax propongono un nuovo modo di intendere il cinema, radicale, estremo, ma fortunato. “L’eau froide” e “Irma Vep” di Assayas sono due film intelligenti e coinvolgenti mentre, invece, tralasciando “Gli amanti del pont-neuf”, all’epoca uno dei film più costosi prodotti dalla Francia, Carax propone, sul finire degli anni ‘90, “Sans titre”, un cortometraggio di nove minuti che lascia presagire quel che diventerà negli anni duemila.

 

Belgio, Ungheria, Spagna, Portogallo, Austria, Polonia, Danimarca, Finlandia, Serbia

Probabilmente gli anni ‘90 sono più rappresentati da questi paesi che da quelli più istituzionali nel mondo del cinema. Procediamo con ordine: in Belgio c’è Chantal Akerman, una godardiana doc, morta recentemente, che, in questo periodo, ha offerto bei ritratti esistenziali come in “D’Est” del 1993.

In Ungheria c’è Bela Tarr, con “Satantango” del 1994 – ma darà il suo meglio nel Duemila – e Márta Mészáros che propone un cinema delle donne, sulle donne. “Diario per mio padre e mia madre”, del 1990, è un lavoro attento, ben strutturato, pieno di dettagli su una Budapest post 1956.

La Spagna, invece, offre tanto ma sono da menzionare almeno cinque film imperdibili: “Il Sole della Mela Cotogna” di Victor Erice, girato nel 1992; “Il fiore del mio segreto” di Pedro Almodovar; “Tesis” di Alejandro Amenabar; “Il giorno della bestia” di Alex de La Iglesia e “Tango” di Carlos Saura.

Non dimenticherò, certamente, il Portogallo con Manoel De Oliveira e la sua “Divina Commedia” del 1991 ma anche “Viaggio all’inizio del mondo”, del 1998, e “I misteri del convento” del 1995 meritano assolutamente una visione. Poi, nel mio amato Portogallo, c’è un regista, non sempre ricordato, Joao Cesar Monteiro, che, nel 1995, ha offerto una delle più importanti lezioni di cinema in Europa: “La Commedia di Dio”.

In Austria c’è Michael Haneke, regista cinico, freddo, distaccato, chirurgico. Uno dei miei registi preferiti. Provate a vedere “Benny’s video”, del 1992, e poi mi direte. Provate a vedere il primo “Funny Games” e capirete. Anche lui è riuscito a far esplodere le sue teorie sul cinema negli anni Duemila ma è negli anni ‘90 che ha preparato il terreno.

Mentre in Polonia c’è Krzystof Kieslowski, che propone la meravigliosa trilogia dei colori, a dare un nuovo corso alla storia del cinema europeo, in Danimarca Lars Von Trier propone Dogma 95, un progetto, condotto con altri registi, sulla produzione di film “dal vero” rispettando alcune regole specifiche (tra cui quella di utilizzare al minimo le musiche e di proporre un audio in presa diretta). In Finlandia, invece, Aki Kaurismaki inanella una serie di capolavori, uno dopo l’altro, tutti da vedere: “La fiammiferaia”, del 1990, “Vita da boheme”, del 1992 e “Nuvole in viaggio” del 1996 rappresentano un punto di vista altro nel cinema degli anni ‘90.

Anche la Serbia è ben rappresentata in questo periodo da un enfant terrible, Emir Kusturica, artista poliedrico, che ha avuto un grande successo internazionale sia con la sua band che con i suoi film. Il primo film suo che ho visto è stato “Underground”, del 1995, grazie a una vhs proposta dal Corriere della Sera. Fu una folgorazione. Lasciatevi trasportare dalla sua caciara e dedicate una vostra speciale monografia a questo talento (poi bruciato). Cosa vedere? Tutto quel che ha fatto in questo periodo ma prestate particolare attenzione al già citato “Underground”, che parla del post guerra balcanico, e a “Gatto nero gatto bianco”.

Italia

Il cinema italiano ha dato nuovo lustro al cinema francese. Lo dice Truffaut quando afferma di essersi ispirato a Rossellini. Lo dice la Nouvelle Vague. Come accade per la Francia e per il Giappone, anche in Italia i vecchi cineasti provano a dare l’ultima zampata: lo fa Michelangelo Antonioni con “Al di là delle nuvole”, nel 1995; Bernardo Bertolucci è ancora giovane ma già viene considerato un “maestro” e propone tre capolavori su quattro film prodotti: “Piccolo Buddha”, del 1993, “Io ballo da sola”, del 1996, e “L’assedio”, del 1998.

Poi ci sono i fratelli Taviani, Francesco Rosi, Ermanno Olmi, Lina Wertmuller che tentano, senza grossi risultati, di imporre, ancora una volta, il loro nome senza capire i tempi che cambiano. Solo Gianni Amelio, con “Il ladro di bambini” nel 1992, riesce a imporre un nuovo tipo di cinema italiano, di denuncia, mentre, invece, Mario Martone, con “Morte di un matematico napoletano”, nel 1992, e “L’amore molesto”, del 1995, tenta di usare il cinema come mezzo per diffondere la sua poetica teatrale riuscendoci con grande intelligenza e incisività. Ritroviamo, infine, un Nanni Moretti critico (bei tempi di una volta, sic!) con “Caro Diario”, del 1994, e “Aprile”, del 1998, che apre le porte a una differente narrazione che si contrappone al culturame e alla sottocultura italiana proveniente dalle reti Mediaset.

Germania e Russia

La Germania è Wim Wenders, Werner Herzog, tra quelli viventi in questo periodo, eppure sono proprio loro a mancare in questi anni. Herzog fa pochissimo, Wenders si ripropone con scarsi risultati (non mi citate Buena Vista Social Club, vi prego!). La Germania è orfana, proprio nel periodo in cui ha bisogno di essere rappresentata? Tranquilli, c’è Edgar Reitz con il secondo episodio di Heimat, un viaggio nel cuore della storia di questo paese.

La Russia, invece, ha il suo nuovo Tarkovskij: si chiama Aleksandr Sokurov e propone due grandissimi capolavori: “Madre e figlio”, del 1997, e “Moloch”, del 1999, un ritratto di Adolf Hitler originale e farsesco.

Regno Unito

Il Regno Unito ha dominato i Novanta, li ha segnati. Danny Boyle, nel 1995, propone “Trainspotting”, che tutti noi abbiamo visto, mentre il più raffinato Peter Greenaway propone “I racconti del cuscino”. I Novanta, nel Regno Unito, sono anche rappresentati da Mike Leigh e Ken Loach, con due diversi approcci alla storia umana. Mike Leigh propone quel capolavoro che è “Segreti e Bugie” mentre Ken Loach, più sanguigno, fa uscire il bellissimo “Terra e libertà”, una storia commovente e piena di pathos.

U.S.A. e Canada

Gli anni ‘90, per l’America, sono stati una manna dal cielo per il cinema, sia d’essai che commerciale. Martin Scorsese ha tirato fuori, ad esempio, due film importanti, “Quei bravi ragazzi” nel 1990 e “Casinò” nel 1995, e un film ambizioso, “Kundun” nel 1997. Gira, inoltre, una serie di documentari importanti, tra cui il suo bellissimo “Viaggio in Italia”. Il suo braccio destro degli anni ‘70, invece, Paul Schrader rappresenta la parte americana del cinema d’essai e si impone con due film complessi stilisticamente ma curiosi: “Cortesie per gli ospiti”, del 1990, tratto dal romanzo di Ian McEwan, e “Le due verità” del 1999.

Clint Eastwood è presente con ben tre capolavori – “Gli spietati”, del 1992; “Un mondo perfetto”, del 1993, e “I ponti di Madison County”, del 1995 – imponendosi nel filone del cinema d’autore e mettendo da parte il suo personaggio da western.

Quentin Tarantino dà il via a una felicissima stagione cinematografica, dapprima con l’intelligente “Le Iene” poi con lo sperimentale “Pulp Fiction” del 1994, che trova il suo epigono in Paul Thomas Anderson che, con “Boogie Nights” nel 1997, ci regala un affresco toccante della pornografia hollywoodiana con un Burt Reynolds da capogiro, nomination agli Oscar del 1998 come “miglior attore non protagonista”.

Poi ci sono i Fratelli Coen, in bilico tra mainstream e film impegnato, con tre capolavori – “Barton Fink” del 1991, “Fargo” del 1995 e “Il grande Lebowski del 1998 -, David Lynch che supera se stesso con “Strade perdute”, de 1997, e “Una storia vera”, del 1999, due film diversissimi tra loro ma che rappresentano le due anime del regista. E, infine, entra di diritto nella storia del cinema americano degli anni ‘90 Abel Ferrara che, in questo periodo, dà il meglio di sé regalando tre grandi capolavori, che vi consiglio fortemente: “Il cattivo tenente” del 1992, “The addiction” del 1995 e “Fratelli” del 1996.

L’America del cinema, però, non è solo questa: è fatta anche di produzioni indipendenti come “La vita è un sogno” di Richard Linklater, “Amateur” di Hal Hartley, con una Isabelle Huppert conturbante che mi ha ossessionato per molto tempo, “Happiness” di Todd Solondz, che parla di rapporti umani e di solitudini, “Safe” di Todd Haynes, una coerente critica della periferia americana, “Kids” di Larry Clark o “Gummo” di Harmony Korine.

Ci sono anche registi più underground, che non conosco, come Jon Jost, e un circuito più sperimentale ma preferisco terminare parlando di David Cronenberg, un regista canadese che amo moltissimo. Negli anni ‘90 è riuscito a inanellare quattro film incredibili, crudi, che racchiudono tutto il suo lavoro di ricerca: “Il pasto nudo”, del 1991, “M.Butterfly, del 1993, il capolavoro “Crash”, del 1996, e “eXistenZ” del 1999.

Australia/Nuova Zelanda

Ebbene sì, a dispetto di quel che può sembrare, anche queste due nazioni hanno un loro tratto stilistico e dei registi di riferimento. Quando si parla di Nuova Zelanda, non si può non pensare a Jane Campion che ha costruito il suo successo proprio negli anni ‘90 con “Un angelo alla mia tavola”, del 1990, il bellissimo “Lezioni di piano”, del 1993 e “Ritratto di signora”, del 1996. Una regista molto talentuosa che, però, già a partire dalla fine degli anni ‘90, ha esaurito il suo fuoco creativo. E’ l’unico riferimento che ho per questa nazione.

Insomma, avrò tralasciato tantissime cose ma questi erano, grossomodo, gli anni ‘90 del cinema d’autore. Vi consiglio, se siete curiosi, di fare questo viaggio nel tempo anche per recuperare autori ormai scomparsi.

 

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Una risposta

  1. f ha detto:

    Si, gli anni 90 vengono citati solo fino ad un certo punto. Boh! Soprattutto per quanto riguarda il cinema nostrano che in quel periodo visse una mezza rinascita dopo il calo degli anni 80, anni in cui comunque emersero giovani registi che s’ imposero tra la fine di quel decennio e quello preso in considerazione. Purtroppo anche quel periodo finì.

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