Boy George: la carriera, in breve

Tutti sanno chi è Boy George: chi lo ama, chi lo odia e anche chi lo ignora. Icona di un pop anni ’80 che giocava a provocare la mentalità bigotta della Middle England più silenziosa e conservatrice, George O’Dowd, classe 1961, esplode con i Culture Club nel lontano 1982, con la prima numero uno del gruppo, Do You Really Want To Hurt Me. Il gioco dei Club è scoperto. Attrarre interesse su di sè, grazie al clamore suscitato dal frontman, Boy George, cross-dresser anzitempo e una delle primissime figure androgine (Bowie, da un punto di vista estetico, osò meno) a scatenare l’inorridita domanda: “Ma è uomo o donna?”. I tabloid cavalcano lo sdegno dei benpensanti e i Culture Club, eversivi esteticamente e abbastanza conservatori musicalmente, continuano comunque a devastare le charts con grandi pezzi pop. Canzoni come Victims e Karma Chameleon, nonostante siano terribilmente figlie del loro tempo, resistono alle decadi che passano e raggiungono lo status di “evergreen”. Il momento dei Culture Club è intenso, ma brevissimo: quattro album in quattro anni, un solo lp capace di resistere al trascorrere inesorabile della storia (Colour By Numbers) e una tonnellata di polemiche extramusicali. Boy George, ormai icona gay acclarata, è parte integrante di quegl’anni ’80 curiosamente immortali nonostante la loro manifesta superfluità. I Culture Club, come capitò a tanto pop dell’epoca, sono soprattutto rappresentati da una degna collezione di singoli, dimostrazione ennesima che quei ritornelli volatili e infettivi possono ancora dire qualcosa se compressi insieme in un bel package.

Molto meno interessante la parabola solista di Boy George. Disintossicatosi dall’eroina, il ritorno di George è eclatante: subito una numero uno con Everything I Own. Era il 1987 e sembrava tutto facile (se c’è la salute, c’è tutto, no? Sbagliato, almeno nel mondo del pop), ed invece la legge non scritta del pop torna a mietere vittime: hai successo negli anni ’80? Incrocia dita e tutto ciò che puoi per la decade successiva….Ed infatti gli anni ’90 di Boy George sono stati un piccolo disastro. La maturazione umana (il buddhismo, i diritti dei gay, una vita che dribbla le sostanze psicotrope) non tocca particolarmente la traiettoria artistica, divenuta taciturna e senza sbocchi. L’unico album datato “nineties” è Cheapness And Beauty, carino ma senza identità, con un George che coverizza Iggy (!!) e gioca col glam. Sarà la “nightlife” a rilanciare le quotazioni di Boy George, sempre più ansioso di svincolarsi da ogni tentazione di revival, forse per provare al mondo di possedere ancora un’anima artistica in grado di esplorare nuovi territori. E mentre Boy ormai si è perso nei bill di tante serate danzerecce in cui il suo nome viene “usato” come curiosa attrazione, ecco un inizio di decade salutato da due nuovi dischi: il primo progetto solista dopo sette anni (U Can Never B 2 Straight e una doppia compilation che può fungere da nuova carta d’identità. L’eterno Boy ha ancora qualcosa da dire; senza lustrini, nè lacrime plastificate.

Articolo di Emiliano Raffo

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