Blatte, il desiderio di scomparire

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Poter essere una blatta.

Essere in grado di scomparire.

A questo aspirano gli hikikomori, cioè tutti quei ragazzi, perlopiù adolescenti, che si isolano in casa e rifiutano ogni tipo di contatto sociale. Non escono più. Il mondo, semplicemente, smette di riguardarli.

Il fenomeno è nato da relativamente poco tempo in Giappone, nazione da sempre caratterizzata da una pressione psicologica che vuole tutti autorealizzati, trionfanti, popolari. Ma col tempo si è diffuso, in forme più o meno simili, nel resto del mondo. Anche in Italia.

L’integrazione richiede uno sforzo non indifferente, specie se si è diversi e ci si sente distanti, o se si è vittime di bullismo ed episodi di discriminazione. Ma non soltanto. Basti pensare ai NEET, tutti quei giovani che non studiano né lavorano. Che si escludono dalla vita, anche ma non solo per motivi di crisi economica.

Si arriva a pensare che stare in silenzio sia una forma di rivolta.

Lo pensa Alex (Stefano Accomo), ragazzo-fantasma che sceglie la strada dell’autoreclusione. O meglio, l’ha già scelta: ciò che noi sentiamo è la sua storia, quando lui ha ormai già lasciato al suo posto un vuoto. È morto d’inedia. La sua famiglia, una famiglia occidentale e benestante dalle tante certezze, non è riuscita a comprenderlo. Non ci riesce neppure ora.

Alex è il protagonista di Blatte, quello che è molto più di uno spettacolo teatrale: in scena al Teatro Gobetti (Teatro Stabile di Torino) il 18 e il 19 marzo per la rassegna de Il cielo su Torino, sotto la regia di Girolamo Lucania e la sceneggiatura di Michelangelo ZenoBlatte è un progetto performativo multimediale che unisce recitazione, supporti audiovisivi (e musica elettronica/modular synth di Daemon Tapes), un uso sapiente di luci e disegno. Vincitore del bando “ORA! Linguaggi contemporanei e produzioni innovative”, è un concerto visivo creato da Parsec in collaborazione con Cubo Teatro. È ispirato a Blatta – fumetto oscuro e distopico di Alberto Ponticelli che richiama per certi versi le atmosfere di AkaB – ma anche all’Amleto, all’Hamletmachine del postmoderno Müller e a racconti di Kafka come “La tana”. Si tratta di un lavoro innovativo nella forma e nei contenuti, un esperimento teatrale coraggioso e che merita attenzione. Si parla di divario generazione e aspettative che crollano.

Sua madre Gwen (Francesca Cassottana) ha sposato un altro uomo, Carl (Jacopo Crovella), che ha già una figlia diciottenne, Olivia (Dalila Reas). Il padre di Alex è morto. La loro è, o pretende di essere, una famiglia felice. Una famiglia canonica, che non riesce a concepire la sofferenza e tenta a tutti i costi di allontanarla. Che non è mai stata educata e non ha educato al dolore.

Alex appare sempre dietro a uno schermo su cui si fanno strada inquietanti disegni o colori, separato da tutto e da tutti. Lontano. Tenta di uscire, di scappare dalla propria solitudine. Resta sullo sfondo. Parla con delle blatte che gli ripetono, stridule, di restare in casa, che ognuno di noi ha il proprio luogo, un habitat da cui è deleterio fuggire. Blatte che forse non sono altro che la sua voce interiore, il riflesso di una mente che non può più controllare.

In un’intervista televisiva (in uno studio bianco e asettico) i tre familiari sorridono in modo innaturale alla telecamera. La madre Gwen sostiene di non essersi accorta di nulla: a chi non accade di voler stare da solo per un po’? Chi non ha mai bisogno di una pausa? Dalla scuola, dal lavoro, dai rapporti con il mondo.

Non solo lei. Nessuno si fa domande quando il ragazzo sparisce. Nessuno s’interessa.

Soltanto Olivia, la sorellastra sua coetanea, un giorno bussa alla porta. Ma resta in silenzio.

In una società senza empatia il gesto di Alex è visto come una vendetta, un rifiuto. Mai come un flebile grido d’aiuto. Eppure era nato normale. Eppure non aveva dato problemi.

La debolezza è una colpa, tranne che per le blatte. Loro si nascondono e attendono. Si nutrono delle macerie di quel che è stato, come un fiume che scorre al contrario.

Un fiume che scorre al contrario e, un pezzo alla volta, trasporta via ogni tormento.

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