Aspettando Godot

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ph Andrea Gatopoulos

Maurizio Scaparro, regista e critico teatrale romano, per la prima si cimenta in un’opera di Samuel Beckett e lo fa con una delle più rappresentate dell’autore irlandese, Aspettando Godot, in scena al Teatro Nuovo di Napoli dal 27 al 31 gennaio 2016. Un classico delle rappresentazioni teatrali di cui il regista sente fortemente il peso ma soprattutto l’emozione nei confronti di un autore che spesso in passato ha guardato con sospetto perché etichettato come avanguardista e in cui successivamente riscoperto uno straordinario preveggente sulla morte del nostro secolo, cogliendo proprio con quest’opera il punto essenziale della condizione dell’uomo moderno, lasciando però aperto l’invito a non far morire la speranza.

Lo spettacolo è prodotto dal Teatro Carcano di Milano e ha per protagonisti un ventaglio di attori di grande valore: Antonio Salines, Luciano Virgilio, Edoardo Siravo, Enrico Bonavera e Michele Degirolamo.

Nel 1956 Vivan Mercier scriveva sull’ Irish Times “Aspettando Godot è una commedia in cui non accade nulla, per due volte”. In effetti è così, ma potrebbe essere il contrario. Vladimiro/Didi ed Estragone/Gogo in un’isolata distesa di una qualsiasi città attendono sotto un albero spoglio l’arrivo del signor Godot. Chi sia e perché lo stiano aspettando non è dato saperlo. Si sa soltanto che il suo arrivo sarà salvifico per i due amici, darà loro qualcosa da mangiare ed un posto caldo dove dormire. Il tempo è scandito solo dalla loro attesa e da fiumi di parole affinché arrivi presto questo momento. Improvvisamente arrivano due personaggi sul luogo di questo fantomatico appuntamento: Pozzo, un proprietario terriero, e Lucky, suo servitore tenuto al guinzaglio. Incuriositi e allo stesso tempo spaventati dai due, Didi e Gogo iniziano a parlare con loro finendo di li a poco in una zuffa. Pozzo e Lucky riprendono il loro cammino. La loro presenza ha scandito più velocemente lo scorrere delle lancette. Appare un messo che annuncia che il signor Godot non potrà venire per quella sera ma sicuramente ci sarà domani. I due pensano di suicidarsi ma poi desistono. Pensano di separarsi, ma poi desistono. Pensano di andar via ma poi restano. Il giorno dopo stessa scena ma qualcosa è cambiato, sui rami dell’albero sono apparse alcune foglie. Nuovamente attendono l’arrivo di Godot, incontrano Pozzo, che nel frattempo è diventato cieco, e Lucky. Trascorrono con loro del tempo in attesa che ripartano. Arriva nuovamente il messo che annuncia loro che il signor Godot per quella sera non potrà raggiungerli ma che sicuramente lo farà domani. Pensano di suicidarci, ma poi desistono, pensano di andare ma poi restano. Continuano ad attendere Godot. Cala il sipario.

Un nulla che ha tenuto incollati ai loro posti gli spettatori nel corso degli anni, dalla prima rappresentazione nel 1953 con la regia di Roger Blin al Théâtre de Babylone. Anche se allora, all’inizio degli anni cinquanta, non era considerato il capolavoro che è oggi, precursore di una tendenza fuori tendenza, Beckett infatti scriveva opere teatrali considerandole un amabile diversivo senza alcuna conoscenza del contesto teatrale in cui andava ad inserirsi. Capolavoro lo è diventato col tempo, fino ad essere oggi una pietra miliare del teatro del novecento per la sua estrema attualità che si astrae dello specifico contesto temporale rendendolo oggettivamente presente in un arco temporale infinito.

Ecco perché assistere alla messa in scena di un’opera di tale portata è un’esperienza che permette un’apertura dall’interno tirando fuori tutto quello che c’è: conoscenza, amore, tedio, dolore. Significa aprirsi ad un cammino di conoscenza della vita, poiché nell’opera ne sono presenti tutte sfumature. Punto essenziale che la regia di Scaparro avverte come monito nella realizzazione teatrale di quest’opera restituendo un Aspettando Godot non metafisico, al di là della realtà, ma estremamente umano, di forte impatto empatico.

Il mondo artistico del regista romano è subito percettibile agli occhi dello spettatore: pochi sconvolgimenti estetici, una vecchia canzone popolare che riecheggia nell’aria, una luna di cartone nel cielo, un riferimento sottile alla Tour Eiffel.  Una semplicità che si avverte appena il sipario viene alzato lasciando scoperta una scenografia pulita, scarna, proprio come la parola usata dall’autore. Molto fedele ai modi e ai tempi del testo, ci troviamo difronte un Godot straordinariamente originario, autentico, la sua primaria essenza. Quello che si genera in platea è una profonda empatia coi due protagonisti: il pubblico si affeziona a Vladimiro ed Estragone, sente sulla propria pelle lo stesso loro sconforto per l’assenza di Godot e  ride con loro alle loro battute. Una scena che si estende al di fuori di essa. Anche il pubblico sente il lento scorrere del tempo dettato unicamente dall’attesa e attende consapevole che presto sarà disilluso. Gli attori in scena hanno costruito in maniera quasi naturale questo sottile filo rosso col pubblico, Antonio Salines e Luciano Virgilio diventano subito familiari ai loro occhi. La loro narrazione degli eventi è simpaticamente amara, dolcemente triste, specchio del loro grande spessore in scena. Edoardo Siravo usa un timbro vocale possente com’è possente il suo personaggio mentre schiocca la frustra a destra e a manca per incitare Lucky/Enrico Bonavera ad ascoltare i suoi ordini. Il monologo di quest’ultimo, un monologo che viaggia come un treno, senza punteggiatura, un omaggio di Beckett all’amico Joyce, lascia il pubblico a bocca aperta per la naturalezza dell’esibizione.

Nella riproposizione dei personaggi di quest’opera il regista assegna un ruolo di primo piano all’analisi delle due coppie, che sono quasi due doppi. Entrambe hanno dei caratteri distintivi propri, come ad esempio la violenza nel rapporto Pozzo/Lucky che in Vladimiro/Estragone non ritroviamo, ma entrambe sono uno specchio: sono legate da un rapporto di dipendenza che si anima di sentimenti antitetici e si produce in decisioni contrastanti, morire e vivere, andare e restare. E ciononostante sono coppie indissolubili, non possono esistere se non all’interno della coppia. Amici, amanti, innamorati o padre e figlio, sono il tutto delle relazioni umane.

Il Godot proposto da Maurizio Scaparro ha un volto profondamente umano. Si appropria della solitudine dell’esistenza umana fatta di attese,  una condanna senza assoluzione, un’attesa senza fine che trascende la condizione del  singolo e si perde nell’intera umanità. L’assenza di Godot quale figura salvifica delle sorti di Didi e Gogo è un’assenza generalizzata, uguale e incompiuta, è l’attesa perenne dell’uomo, assente nel suo presente, condizione dell’uomo del Novecento, di una svolta che possa cambiargli il corso della giornata e della vita intera. Per questo Beckett, come lo stesso regista sostiene, in questo è estremamente attuale, mettendo sotto la lente d’ingrandimento l’uomo privo di tutte le connotazioni sociali, politiche o geografiche rendendolo protagonista, in quest’opera, della sintesi di tutte le attese possibili. Un avanguardista, etichetta forse impropriamente usata nel nostro tempo, che ha polverizzato e creato ex novo il teatro, da un punto di vista contenutistico e formale, mediante l’utilizzo plurimo di generi e registri vocali, pause, punteggiature ma soprattutto facendosi beffa del linguaggio teatrale fino ad allora consacrato. Un teatro dell’assurdo, attraverso i nostri occhi è più contemporaneo che mai, che con l’uso di una scena scarna e di una parola volutamente spezzata, breve, a volte vacua riproduce una circolarità senza fine: cercare di parlare per sopravvivere alla vita e a noi stessi, aggrapparci a tutti quegli elementi, materiali e immateriali, che siano prova del nostro essere vivi.

C’impiccheremo domani. A meno che Godot non venga. E se viene? Saremo salvati. Allora andiamo? Sì, andiamo. 

 

Info

Teatro Nuovo di Napoli

via Montecalvario, 16

081 4976267 – botteghino@teatronuovonapoli.it

Orario: mercoledì, giovedì, venerdì e sabato ore 21:00, domenica ore 18:30

 

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