Antonello Cossia: paghiamo anni di falsi borderò – prima parte

Antonello Cossia

Antonello Cossia intraprende nel 1984, a Napoli, lo studio della danza contemporanea. Frequenta stage in Italia e a Parigi. Nel 1987 prende parte alla fondazione del “Laboratorio Itinerante” diretto da Antonio Neiwiller, promosso da TEATRI UNITI. L’apprendistato teatrale si fonda sui laboratori con: Reina Mirecka, Leo De Berardinis, Yoshi Oida, Renato Carpentieri, Marco Baliani, Carlo Merlo. Come attore a teatro e cinema collabora con i registi: Toni Servillo, Mario Martone, Renato Carpentieri, Antonio Neiwiller, Alfonso Santagata, Cristina Pezzoli, Marco Baliani, Daniele Segre, Ninni Bruschetta, Claudio Collovà, Manetti Bros, Claudio Cupellini, Stefano Incerti, Claudio Bonivento, Gianluigi Calderone.

Dal 1995 al 2006, come regista con Raffaele Di Florio e Riccardo Veno crea la firma artistica – cossiadiflorioveno – realizzando circa quindici tra creazioni, spettacoli e progetti, legati ad una modalità di realizzazione scenica basata sulla commistione dei linguaggi tra poesia, movimento, istallazione scenografica, musica, drammaturgia dei luoghi. Nel 2007 scrive e mette in scena A fronte alta, un sogno del 1956.

Cura la drammaturgia, la regia ed è interprete degli spettacoli: Figlio del Tricolore, La sala azzurra, La vera storia di Uosso, Ultime notizie dalla famiglia, Solo andata.

 

1) Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te/voi, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?

L’inizio non è dei più confortanti poiché partiamo subito dalla domanda più difficile. Si tratta qui, a mio modesto parere, non di esprimere un’opinione personale, ma più precisamente compiere una constatazione, a partire dallo studio e dall’osservazione del processo evolutivo interno alla storia del teatro.
Bisogna sempre partire da uno stato di salute per raccontare la crisi, che a sua volta genera una fase di ricostruzione e rinascita di forme e modalità differenti.
Una osservazione di tipo olistico, multidisciplinare, che implichi nella riflessione la contemplazione di più ambiti, che non riduca lo sguardo al solo ambito delle arti sceniche.

In termini medici un processo omeopatico a ben guardare, termine di paragone a cui faccio spesso riferimento nella mia pratica teatrale.
Mi riferisco specificamente al processo evolutivo dell’arte, spesso basato sul superamento e sviluppo delle tecniche e degli stili attraverso la messa in discussione e la conseguente crisi del presente di ogni epoca, sin dalle origini di ciò che per la nostra cultura occidentale definiamo con il termine teatro.
Le sue origini, intese come quelle in cui ritroviamo regole codificate, saltando i riti e le forme arcaiche di manifestazioni rituali e tribali, quando cioè lo spettacolo è ospitato in un edificio realizzato appositamente, si iscrivono al periodo della civiltà ellenica, pressappoco nel V secolo a.C.
Ascesa, splendore e declino di una grande cultura, denominata ‘età di Pericle’, qui si ha la fioritura
dei tre massimi tragici dell’antichità: Eschilo, Sofocle, Euripide.
Da qui in poi, un ciclo incessante di morte e rinascita del teatro ha contraddistinto epoche e momenti storici. Non è il caso ovviamente di ripercorrerli tutti.
Ricordiamo solo per avere parametri di qualità e differenze, che la tragedia greca seppur basata su narrazioni tremende e drammatiche, aveva per il pubblico un valore catartico, utile ad elevare la qualità spirituale e civica di tutti coloro che partecipavano al rito.
L’epoca romana segna il declino del valore della vita umana, rendendo accettabili spettacoli cruenti, con animali, scontri tra esseri umani e potere di decidere della vita altrui con la semplice posizione del pollice.

Prima vera e propria crisi, decadenza dei valori, lassismo nei costumi e quindi crisi e fine del teatro\rito, di fondamentale importanza civile e sociale per la comunità?
Tutt’altro direi, stando a ciò che la Storia ci offre da osservare, un esempio per tutti gli ‘stadi’ costruiti per queste manifestazioni, indice di affluenza elevata e oggi patrimonio dell’umanità.
Così per dire…
Mi piace sottoporre una precisazione come riflessione: l’idea della crisi come la intendiamo per lo più noi contemporanei, oserei affermare che è tutta interna e figlia del novecento. Mi spiego.
Nelle sue forme, via via succedutesi nei secoli, i teatranti avevano dinanzi a sé l’obiettivo di conquistare il pubblico con la propria maestria, l’artigianato rigoroso e totalizzante, l’attenzione ai temi e ai meccanismi, volani di stupore e seduzione.
Avevano insomma il problema di ‘deviare’ il pubblico, di ‘se-durlo’, condurlo a se, senza dare nulla per scontato.
In epoche successive, il botteghino, la cassa, decretava il successo, l’interesse, il rifiuto di un’opera nel momento della sua pubblica rappresentazione e direi quindi verifica diretta. Il meccanismo insomma era meritorio seppur feroce nella sua articolazione.
Però a ben vedere è il meccanismo che concedeva agli artisti anche la possibilità di criticare i potenti, gli abusi, le prepotenze, guardiamo naturalmente a Shakespeare, Marlowe, fino a Molière o Goldoni che metteva alla berlina la società del tempo divisa tra servitori e padroni.
I problemi cominciano a mio parere nella fase di un teatro che diventa di fatto assistito, sostenuto, spesso protetto, da un’azione politica nata sotto auspici e intenti di valore, quasi subito corrotta dall’agire dei ministri, parlamentari, sottosegretari, direttori, manager della cultura.
Di fatto il sostegno che arriva dallo Stato, attraverso modalità di stampo fortemente burocratiche, sottomette e rende silente quella componente irriguardosa che torna a fin di bene sotto forma di specchio dei costumi e dei comportamenti. L’abbonamento assopisce il vigore del teatro d’arte.
L’autorevole azione del grande connubio Grassi\Strehler, innestata nel periodo del secondo dopoguerra, basata sull’idea di difendere, promuovere, promulgare il teatro cosiddetto ‘d’arte’, non ha avuto lo sviluppo e la fortuna di durare nel tempo come sistema virtuoso, al contrario ben presto è stata contaminata da scambi, avidità, corruzione, disonestà.
Questo è un tema che merita uno studio a parte.

L’azione dell’avanguardia negli anni settanta poi, seppur inneschi una crisi e un rifiuto, sfociati in una rottura storica che si proietterà negli anni successivi con un’onda lunga, non si può certo definire deleteria o negativa per il teatro italiano, tutt’altro, essa è stata foriera di vitalità e ricchezza.
Covando al suo interno molte contraddizioni, maturate in problematiche organizzative, artistiche, gestionali, diventate evidenti col passare del tempo.
Fino ai nostri giorni, dove siamo intenti a raccogliere i pezzi di un ventennio dall’apparenza opulento e generoso nei riguardi della cultura, ma nella sostanza vorace, menefreghista e distruttivo nei confronti di tutto ciò che rappresentava ‘impegno intellettuale’, consistenza qualitativa in ambito di comunicazione a tutti i livelli, in primis utilizzando a tutto spiano l’arma imbattibile della televisione, passata dagli sceneggiati televisivi di qualità utilissimi a diffondere grandi classici ai ‘drive-in’ e derivati.
Insomma un disastro.

Siccome il teatro, a mio parere è il frutto della società cui è contemporaneo, nasce in seno ad essa criticandola, rappresentandola e da essa è dipendente, ecco che il mostro denominato crisi, appare in tutta la sua drammatica essenza, generato dagli uomini stessi che avrebbero ancor più bisogno di guardarsi allo specchio, oramai distratti dai cristalli liquidi dei vari, attraenti, seducenti, loro si, strumenti di progresso.
Una comunità distratta dalla comunicazione in rete, finisce per dimenticarsi o rifiutare gli uomini in carne ed ossa. Infatti il successo premia con riconoscimenti, onorificenze, danaro, delirio e folle urlanti proprio quei volti, quei corpi che non scandalizzano più, anzi nella loro consistenza liquida e di plastica al tempo stesso, diventano icone e ‘star’ di una società confusa dalla massa di informazioni a cui è sottoposta. Mi viene naturale in coda alla prima, rispondere anche alla seconda domanda:

2) Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?

Cito le parole di due artisti che ritengo tra i miei maestri assoluti, il primo, per materiale testuale, pensieri e idee sul mondo e sul teatro, trasmesse grazie alle proprie opere pittoriche e scultoree, ai suoi spettacoli, agli scritti. Il secondo è stato materialmente la mia ‘bottega’, in anni di formazione e pratica di palcoscenico:
Sempre, quasi in ogni epoca ci si è lamentati e si è detto
che la cultura stava morendo.
Le stesse preoccupazioni hanno toccato anche l’arte.
Anzi, soprattutto l’arte.
Per la maggior parte queste prognosi non si sono verificate.
Erano sbagliate?
Erano motivate dai sintomi della decadenza?
O forse nell’arte è implicita fin dall’inizio una condanna,
una certa condizione tanto fragile e lontana dal più felice benessere
da avvicinarsi alla malattia inguaribile
o piuttosto (e più precisamente)
alla nostalgia
della condizione
sconosciuta,
non ancora “scoperta”,
accessibile
soltanto attraverso la porta che si chiama morte.

TADEUSZ KANTOR – IL TEATRO DELLA MORTE – MILANO MAGGIO 1979

“… nel duemila si andrà a teatro per vedere
ancora gli uomini che sudano, il teatro sarà questa cosa in un’ipotesi di forte massificazione.
E’ probabile che non ci arriveremo nemmeno,
che ci saranno già dei rigurgiti ad altri livelli e si potranno fare altre scelte.
Ma nell’ipotesi di massima informatizzazione della società e
di massima massificazione delle condizioni di vita degli uomini, si andrà a teatro perché là ci sono ancora degli esseri che sudano, che piangono,, si tagliano, cadono, si disperano e sono felici.
Si andrà a vedere questo evento come qualcosa di non manipolabile, di non bi-dimensionabile…”
ANTONIO NEIWILLER BARI 1989

3) Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa?

Non so se a questo punto si possa parlare di funzione sociale del teatro, vista la generale distrazione nei suoi confronti. Di sicuro posso dire che quando uno spettacolo si manifesta in tutto il suo valore di opera, di partitura dei sentimenti, i teatri si riempiono, gli spettatori dimostrano apertamente il loro gradimento non sottomesso alle mode, alla popolarità del protagonista del momento, portandosi a casa il senso che quell’opera, quell’autore, quella creazione volevano stimolare.
Questo posso dirlo con cognizione di causa ed in maniera diversificata, avendo fatto proprio negli ultimi tempi due tipi di esperienze molto diverse tra loro.
Ho girato il mondo, come attore, in un progetto realizzato a partire da un testo di Eduardo De Filippo ‘Le voci di dentro’ e subito dopo, ho portato in scena una mia creazione nata da un testo di Erri De Luca ‘Solo andata’. In entrambi i casi, in forme diverse naturalmente, in numero imparagonabile tra loro, però con la stessa intensità, gli spettatori condividevano con gli attuanti un’esperienza sulla scena, sviluppando, riconquistando, generando la riflessione su temi molto diversi, dalla stima ‘uccisa’ nelle relazioni umane, sociali, parentali, dai contrasti in famiglia alla tragedia della migrazione clandestina.

Se i sentimenti sono condivisi, stimolati, vissuti e non giudicati seppur messi alla berlina e sbeffeggiati, allora a mio avviso, si può tirare in ballo la dicitura ‘teatro sociale’, in quanto accanto ai bisogni primari come cibo e vestiario, assumono uguale importanza i bisogni legati allo spirito, all’intelletto, alla gamma dei sentimenti che si ha necessità di praticare.
In questo caso intendo l’appellativo ‘sociale’ alla maniera di Vladimir Majakovskij, che assimilava il poeta e l’artista al meccanico, all’operaio, al dentista, tutti partecipi al rinnovamento della loro vita in comune.

4) Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?

Lo scuotimento delle coscienze è qualcosa di molto potente che avviene prima di tutto a livello politico, nel senso più ampio del termine, multiplo, civico, popolare.
Il teatro nella sua forma rituale può apportare un contributo, può avere la forza di far sedimentare un pensiero, di ficcarlo nella mente dello spettatore e lavorare nel tempo, ma parliamo oramai di esempi abbastanza rari o comunque poco consueti nella grande distribuzione, dove vige la forma ‘spettacolo’ come intrattenimento, in luogo di ‘teatro’, in senso condiviso, partecipativo, attivo.

L’ultimo esempio in tal senso è rappresentato dal Living Theatre, Julian Beck e Judith Malina, in cui la forma ‘teatro’ travalica le pareti del luogo deputato e fluisce all’esterno, per le strade, nelle piazze.
Questa mancanza odierna non ci esime dalla responsabilità di essere prima di tutto onesti con noi stessi e il nostro mestiere e partecipare all’attivazione, al mantenimento della fiamma che arde, quella luce che illumina un cammino fatto di miglioramento, arricchimento, cambiamento e trasformazione dai tempi bui dell’ignoranza alla luminosità dell’intelletto.

5) Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?

Lo stato ha il dovere di sostenere le espressioni culturali che non possono direttamente beneficiare di proventi diretti, scaturiti da attività commerciali o comunque inserite in un circuito economico che riesce in maniera autonoma ad autosostenersi.
In un paese come il nostro però, chiunque si lamenta e richiede l’intervento dello stato, per sostenere i costi, salvo godere personalmente dei guadagni, magari anche evadendo in qualche modo le tasse.

Riguardo i finanziamenti specificamente teatrali, paghiamo oggi anni di spreco, di imbrogli, di falsi borderò, istigati a loro volta da una cieca e sorda burocrazia. Un apparato che non fa nulla per migliorarsi al suo interno, soprattutto guardare e ascoltare gli esempi e le imprese virtuose, che per capacità, ostinazione, scelta e valore riescono a coniugare la qualità della proposta con un bel riscontro di botteghino.
Il nuovo decreto a mio parere, se da una parte crea la sensazione di definire e migliorare alcune regole, sta producendo danni che vedremo più avanti, quando il deserto sarà sotto i nostri piedi e noi ci ritroveremo senz’acqua.
Per ora viviamo l’euforia di una legge che non c’era e che oggi esiste, ma va modificata e cambiata in numerose parti, così come sta accadendo grazie ad alcuni accreditati e stimati funzionari, dietro pressione di tanti teatranti, che in un modo o nell’altro stanno cercando di farsi sentire.

Riguardo ai benefici oltre coloro che a pieno titolo meritano il sostegno economico attraverso la produzione, la creazione di posti di lavoro, l’offerta di qualità, ci sono i ‘frequentatori abituali di uffici più che di palcoscenici, quelli si che sono bravi ad intercettare bandi, sovvenzioni, fondi, senza in cambio una ricaduta positiva sulla comunità. Esempio spesso di pessimo ed inutile ‘teatro’.
Qui ritorna il discorso sull’omeopatia trattato all’inizio: la capacità di gestire le ‘carte’, non assegna di fatto la qualità artistica. Danni, noia, teatro mortale come lo definisce molto bene Peter Brook.
Il discorso legato ai giovani è molto complesso e difficile da sostenere senza attirarsi le ire di qualcuno, preferirei tacerlo, mischiandomi tra le loro fila, godendo dell’etichetta che in Italia viene data alla mia generazione: giovane attore, giovane regista, giovane autore.
Giovane cinquantenne che si afferma sulle scene… dopo trent’anni di attività e con un curriculum di tre pagine. Mi sembra un buon modo di passare alla prossima domanda.

 

La seconda parte dell’intervista verrà pubblicata venerdì 6 maggio 2016.

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