Angeli minori di Antoine Volodine, tra narrat e post-esotismo

“Chi ci dirà chi siamo, il giorno in cui non lo sapremo più e il giorno in cui non lo saprà mai nessuno?”

Che cos’è “Angeli minori” di Antoine Volodine? Un libro, certo, ma soprattutto un’esperienza di lettura totalmente rivoluzionaria. Un romanzo (forse) che non può essere paragonato a nessun altro – almeno, a nessun altro autore.

Antoine Volodine, scrittore francese d’origini russe, è uno degli autori più inclassificabili della letteratura contemporanea. Prima di tutto, Volodine è lo pseudonimo di un uomo il cui nome resta segreto, e neppure l’unico: come un novello Pessoa, scrive sotto i nomi (definiti proprio eteronomi) di Elli KronauerManuela Draeger e Lutz Bassmann. Tutti questi autori fanno parte di una corrente letteraria denominata post-esotismo. È stato costretto a fondare una nuova corrente per far sì che i critici non decidessero al posto suo di quale categoria dovesse, a rotazione, far parte. Il post-esotismo è fatto di libri che danno voce ai prigionieri, nel senso più ampio del termine. Sconfitti e condannati, i suoi sono personaggi che degenerano, voci che si fanno animali, intimiste, sincere, metafisiche. Nel mondo post-esotista lo spazio e il tempo sono quelli di un limbo, una realtà (si fa per dire) che esiste nel non-tempo e nel non-spazio, come se si fosse sempre fermi in quel momento che per i buddhisti dura quarantanove giorni e sta a metà tra la fine della vita e la prossima reincarnazione (il Bardo narrato anche da Saunders nel suo ultimo romanzo).

Angeli minori” (coraggiosamente pubblicato da L’Orma) è ambientato proprio in quel non-luogo, mentre la civiltà è ormai tramontata. Tutto è perduto, e siamo in un racconto post-post-apocalittico (l’umanità da tempo è terminata, ma non stiamo guardando solo ciò che viene dopo l’apocalisse, ma in un certo senso ciò che viene dopo che è finito il tempo dopo dell’apocalisse). I personaggi narrano le loro storie per frammenti, sogni, incubi, dettagli. Direbbe David Lynch: come se la storia fosse completa al di là della porta, ma noi potessimo osservarla soltanto attraverso la serratura.

In verità a dare voce a persone e animali (dai nomi assurdi e incredibili – come Enzo Mardirossian, Fred Zenfl, Emilian Bagdachvili, Evon Zwogg, Bashkim Kortchmaz) è Will Scheidmann. Per un altro scopo Will era stato creato, ma grazie alle storie la sua vita acquisterà un senso (a tratti infernale). La sua missione è quella di riportare l’equilibrio sulla Terra.

Will è fatto di stracci e pezzi di stoffa. A dargli la vita, nell’invisibile danza del parto, sono delle vecchie che lui chiama “nonne”, vecchie costrette all’immortalità. Lui, come un vecchio cantastorie, ogni giorno parla e racconta un narrat.

“Chiamo qui narrat quarantanove immagini organizzate su cui si fermano, nella loro erranza, i miei mendicanti e i miei animali preferiti, nonché qualche vecchia immortale. Almeno una di loro è stata mia nonna. Perché si tratta anche di minuscoli territori d’esilio dove continuano a esistere, bene o male, coloro di cui mi ricordo e coloro che amo. […] Luoghi in cui coloro che amo possono riposarsi un istante prima di riprendere il cammino verso il nulla.”

Narrat: così si chiamano i brevissimi racconti di cui il libro è composto, i racconti di Will fatto di brandelli. 49 in tutto. Una sinfonia di parole, a tratti una nenia, un tormento, un circo. Viene da pensare che forse ognuno ha il proprio, ogni lettore è destinato e condannato a riconoscersi inevitabilmente in uno dei narrat, come accadeva alle persone che con orrore riconoscevano la loro perfetta sagoma scavata nella pietra nella storia breve di Junji Ito “The Enigma of Amigara Fault”.

Racconti distorti e assurdi, complessi e simili a poesie, tra orsi polari, scrittori, mendicanti e sciamani. Una vita che è finita ma che non riesce a finire. La risposta di “Angeli minori” non sta nel libro, ma nei sogni che farà di notte chi lo legge. E grazie a Volodine si fanno tanti vagheggi e tanti incubi.

La natura è selvaggia, una steppa, un luogo chiamato, semplicemente, “i campi”. Sembra la Russia, o la Mongolia, ed è disseminata di yurte. I nomi delle strade sono francesi. I nomi delle cose sono inspiegabili. È un libro simmetrico: al primo racconto corrisponde l’ultimo, e così via fino al centro, come un assurdo vortice che annienta e trascina. Si ha l’impressione di leggere una profezia, una distopia, un qualcosa che è avvenuto o avverrà – terrificante è non sapere quando, e pensare che qualcosa continui a sfuggire.

Will Scheidmann racconta e ancora racconta, instancabile come Shahrazād.

“Sono stato messo al mondo nella paura e nel caos, mi hanno fatto entrare in scena al centro di un capannello di vecchie urlanti, e quando parlo di venire al mondo o di entrare in scena non lo faccio alla leggera, si tratta proprio della mia nascita e non di quella di un altro ed è a partire da quella data, per me tanto infausta, che tutto ha cominciato ad andarmi male, non sempre malissimo, certo, e con periodi talvolta meno disastrosi di altri, ma comunque generalmente male […]. Sono nato contro la mia volontà, mi avete confiscato la mia inesistenza, ecco quel che vi rimprovero. Il risveglio per me è stato un incubo”.

Tutti i volti di “Angeli minori” hanno questo in comune: è stata loro confiscata l’inesistenza. Il loro cammino verso il nulla non è ancora terminato. E forse non terminerà.

Nei narrat è concessa loro una tregua. Narrat strani, certo, ma soltanto perché “la stranezza è la forma che prende il bello quando il bello è disperato”. E il mondo di Volodine è così bello da essere inconcepibile.

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