Amleto FX, il dolore 2.0

Amleto-FX

Il TAN, Teatro area nord di Napoli, ha ospitato il 19 ed il 20 marzo 2016 Amleto FX, di e con Gabriele Paolocà fondatore assieme a Michele Altamura e Riccardo Lanzarone, della compagnia teatrale VicoQuartoMazzini.

Un altro Amleto? No, perché questo è un Amleto che non è Amleto, ma non per questo meno degli altri numerosi che nel corso del tempo si sono avvicendati sui palcoscenici di tutto il mondo. L’opera cardine della produzione teatrale shakespeariana è stata sviscerata, destrutturata, indagata attraverso diversi punti di vista, politico, sociale, puramente teatrale o è stata utilizzata quale punto di partenza delle visioni dei diversi protagonisti. Con maggiore o minore successo. Resta un punto fermo dell’opera, sottolineato in tempi non lontani dal critico teatrale Jan Kott nel saggio Shakespeare nostro contemporaneo quando scriveva che Amleto è una spugna. Basta non stilizzarlo (museo), perché assorba tutta la nostra contemporaneità.

Credo che il lavoro di Gabriele Paolocà sia partito proprio da questo assunto nell’allestimento dello spettacolo, offrendo una personale interpretazione dell’Amleto, dissacrante, piena di ironia, un monologo trasversale ricco di citazioni provenienti dalla musica, dal cinema, dalla letteratura e dall’arte. Un’ora o poco più di spettacolo in una piccolo teatro nella periferia della città capace di generare stati d’animo differenti: dalle risate a crepapelle alla malinconia sottile, un crescendo di emozioni che culminano nel monologo finale, intimo ed intenso, carico della forza del protagonista in scena.

La scenografia a vista accoglie il pubblico in sala. Pochi oggetti sparsi. Una scrivania con un MacBook, ai piedi un vaso lungo colmo di terra dove sono piantate una bottiglia di Aperol e una di spumante. In un angolo dei rami adagiati al pavimento, nell’altro un tavolino con una parrucca bionda. In primo piano un cappio che pende dal soffitto. Sullo sfondo domina una veneziana su cui è disegnata con tratto scuro La stanza di Van Gogh ad Arles.

Amleto entra. Abito scuro, calzoncini a sbuffo e camicia bianca. In testa una parrucca scura che termina con uno chignon. Raccoglie i rami ed intonando di Back to black di Amy Winehouse, We only said good-bye with words, I died a hundred times, You go back to.., inizia la sua storia.  Il principe di Danimarca è un giovane che esce troppo poco dalla sua stanza e che si trova a dover affrontare la morte di suo padre, subendo il peso della castrazione tecnologica, tratto comune della modernità. Ma questo Amleto non cerca vendetta per la morte di suo padre, semplicemente non riesce ad accettarla lì chiuso tra le sue quattro mura, con una madre troia e uno zio bastardo in giro a far festa per Forte dei Marmi. Una madre di cui sentiamo la voce, che con tono amorevole raccomanda al figlio di mangiare gli spinaci e di tentare, una volta tornati, di costruire un rapporto con lo zio Claudio.

Il suo male di vivere, Questo dolore è solo mio!,  si manifesta attraverso i diversi cambi d’abito. Ritroviamo, infatti, una insolita Marilyn Monroe in abito bianco che, pigiando il piede su un telecomando posto sul pavimento, permette la fuoriuscita di fumo bianco che l’accompagna sulle note del famoso Happy Birthday, un arrabbiato Kurt Cobain con camicia a quadri e parrucca bionda che urla il suo dolore, fino alla ripresa degli abiti iniziali, momentaneamente appesi al cappio. Il tutto interrotto dalle notifiche note dell’era del 2.0 che gli consentono il contatto oltre le quattro mura, col suo amico Orazio e la sua amata Ofelia, che tentano di rianimarlo da questa catarsi emotiva invitandolo ad una festa dove ci saranno tutti loro compresi, con quello che è il linguaggio post moderno dove puntini puntini puntini sono pause o alludono ad altro, dove le interrogazioni sono seguite dall’uso spasmodico dei punti di interrogazione. Quando Amleto immagina il proprio suicidio, annunciandolo come una notizia al telegiornale, Amleto si è ucciso tagliandosi le vene in una vasca piena di barbiturici, strafatto di coca. Amleto lascia una mamma troia, uno zio bastardo e qualche parrucca è una notifica di Ofelia a salvarlo dall’azione, che ringrazia facendo leva attraverso le bacheche della memoria con una citazione di Pasolini, non prima di averle consigliato il suicidio da riprendere con lo smartphone.

Gabriele Paolocà lavora sul testo originale adattandolo alla sua capacità, nonché bravura, attoriale, che si fonda su una forza scenica che non può lasciare gli occhi indifferenti. Si resta rapiti dalla sua capacità di variare registri vocali nell’arco di qualche secondo, rendendo pienamente il senso del dialogo, come nel caso del famoso Rosencratz e Guildestern dal piglio nazional popolare, o quando imprigionato nella conversazione coi propri incubi costruisce un lungo monologo prendendo a prestito citazioni cinematografiche tratte da Il silenzio degli innocenti, Blade Runner, Apollo 13 e Forrest Gump. Non manca il momento clou della rappresentazione, la citazione più celebre della letteratura di tutti i tempi, il soliloquio col teschio di Yorick, in versione 2.0 perché proiettato sullo schermo del MacBook, Essere, o non essere, è questo il fottuto problema.

In tutto questo peregrinare di citazioni e prestiti, di testo originale e comiche rivisitazioni, non manca a palesarsi lo spettro del bardo, che gli parla da una cartella dimenticata del file documenti, e che mette inevitabilmente in evidenza la verità unica e sempre presente di quest’opera, la solitudine del protagonista, in costante balia dell’eterno interrogativo: essere o non essere.

VicoQuartoMazzini è una ventata di aria fresca, un tentativo di coinvolgimento diretto dello spettatore, di volergli parlare, di volerlo rendere sempre presente. Tentativo ben riuscito grazie alla generosità del protagonista in scena, che guarda il pubblico negli occhi, rivolgendo sempre a lui, che merita ogni minuto di attenzione. Generosità che gli è valsa il Premio Hystrio alla vocazione nel 2015.

 

 

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