8 donne e 1/2: recensione del film di Peter Greenaway

Sul manichesimo che l’esteta Greenaway suscita nel pubblico, non esiste dubbio alcuno. Idolatrato dagli ammiratori, denigrato dal Mereghetti, il regista inglese persegue la sua vita “pittorica” alla restituzione dell’ immagine cinematografica. Aldiquà dell’aldilà, situata in campo immaginifico del tutto “altro” rispetto all’aurea medietas dello schermo, l’arte di Greenaway è comunque sempre calda nell’evocare riferimenti e citazioni, nel costruire paradisi estetici conchiusi e idealizzati. Poco inerenti alla realtà, ma di indubbio fascino, come sistemi visivi. Le otto donne e mezzo del titolo sono un visibilissimo debito all’omonima opera felliniana, che costituisce il motore il substrato narrativo di questo gineceo delirante, edificato da due businessmen, padre e figlio, in vena di riparazioni dopo un grave lutto familiare. Una grande bouffe ovviamente ambientata in una dimora sontuosa, ove il sesso è messo in scena come opera d’arte, esibito per il suo valore plastico, orgogliosamente mostrato come forma di risanamento. Ove manca l’apoteosi della dissoluzione, e prevale l’esercizio di stile, almeno a livello di accoppiamento.

Film a due facce: la velocità estrema del Giappone, la geometrica e ludica follia del pachinko, il terribile biliardino nipponico, e la tranquillità anormale dell’entroterra ginevrino. Nel mezzo, lo stesso principio di regolarità. Che traccia una linea ben precisa intorno al corpo femminile (indagato, anatomizzato, omaggiato talora crudelmente) e al desiderio maschile (fragile, emotivamente instabile). La donna anche come feticcio felliano, da pesare e misurare. Donna giunonica, ma anche anoressica come Amanda Plummer. Donna percorsa da ferite, e dalla ricerca grafica che è tipica di Greenaway. Donna modella, donna soggetto e oggetto. Un vero film maschilista, girato con l’occhio interessato del pittore. Sul quale si può essere di due pareri assolutamente opposti. Deprecare perché esterna ed inaccettabile l’algido senso della messa in scena orchestrata per il gusto della fotogenia, o lasciarsi trasportare dall ‘incanto del gioco di forme. Alle giudicanti stellette la sentenza discriminante.

Articolo di Riccardo Ventrella (reVision)

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