1984, il Grande Fratello di Matthew Lenton nell’epoca dei social media

Matthew Lenton, regista, direttore e fondatore della compagnia scozzese Vanishing Point, torna a Napoli dopo il suo Interiors, presentato all’edizione del 2009 del Napoli Teatro Festival. Il regista britannico ha messo in scena al Teatro Bellini di Napoli il suo adattamento di 1984 di George Orwell, prodotto da ERT – Emilia Romagna Teatro con il CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, con un gruppo di giovani attori italiani.

Il protagonista della vicenda è Winston Smith, interpretato da un acerbo Luca Carboni, un uomo solo, senza identità e memoria. Winston ha un diario di tutto quel che succede in Oceania, un luogo del futuro governato dal Grande Fratello, un mostro tecnologico che controlla continuamente tutte le persone avvalendosi di telecamere e microfoni. Winston conosce Julia e, grazie alla sua determinazione, troverà la forza per combattere il sistema.

L’allestimento di Lenton inizia con un dibattito informale, di una decina di minuti, a luci accese, in cui i tre attori protagonisti propongono al pubblico una discussione sull’attualità del libro di Orwell. Si capirà presto che si tratta di un prologo per mostrare tre punti di vista sulla nostra quotidianità. Si parla di social media, di algoritmi, di filter bubble ma anche di fake news e del giornalismo nell’era della post-verità. Lentamente le voci si dissolvono, le luci calano e il pubblico viene proiettato all’interno della società del Grande Fratello, nella casa di Winston Smith dominata da un teleschermo gigante che mostra un occhio. Winston, senza fare movimenti di troppo, appunta i suoi pensieri in un diario rosso, comprato in un negozio di antiquariato. Non vuole farsi scoprire. La società governata dal Grande Fratello è divisa in due caste: gli impiegati, a cui Winston appartiene, che sono sottoposti ad un rigido controllo e credono a tutto quel che dice la propaganda, e i Soviet, che sono poco più che larve. Nessuno ha memoria, perché il passato viene continuamente riscritto, né ha interesse a ricostruirlo mentre Winston, invece, vorrebbe ricordare quel che c’era prima della rivoluzione a partire dalla lingua. Molte parole, infatti, sono state abolite dalla neolingua e, in una discussione tra Syme, un membro del partito, e Winston c’è l’essenza di quel che le parole possono creare. Una rivoluzione contro chi vuole semplificare il linguaggio per poterlo controllare.

Lenton spiega tutto questo mantenendo la centralità dello spazio scenico che Gaia Buzzi concepisce in maniera tridimensionale. Ci sono tre teleschermi ad incastro, incorniciati da tubi al neon, dal più grande, che mostra l’azione sulla scena, al più piccolo, che mostra l’occhio del Grande Fratello. Una donna, dietro ad un tavolo, illuminato da una lampada, al lato del palco, è la voce off che racconta la vicenda e funge da raccordo tra le vicende e i personaggi.

Infine il regista insiste sull’esperienza dello shock con il finale nella stanza 101 dove compie una narrazione psicotica della sopraffazione, del potere e del dolore. Sin dall’inizio si respira un contesto di inquietudine, freddo, fatto di contrasti ma, nel finale, per spiegare la narcotizzazione della coscienza di un uomo, Lenton insiste sull’aspetto sanguinolento, crudele, agghiacciante per completare il discorso sulla dittatura.

Non tutti gli attori sono allo stesso livello e questa differenza nuoce pesantemente sull’economia dello spettacolo, sul ritmo, sulla tensione narrativa. Un aspetto non di poco conto perché rischia di addormentare qualche spettatore di troppo in sala.

Visto al Teatro Bellini il 28/11/2018

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